Il quotidiano "La Repubblica" ha chiesto ai bambini, ottenendo risposte spassose e spiazzanti, «qual è la prima cosa che farai appena potrà uscire?». L'interrogativo credo che valga per tutti, grandi e piccini, perché se c'è qualcosa che colpisce di questa situazione kafkiana è proprio non vederne ancora l'approdo, oltretutto con il timore legittimo di non esserci quando ci sarà la via d'uscita. Giorno dopo giorno si nota - anche se dare ad un virus dei sentimenti umani so bene quanto sia grottesco - la ferocia dell'epidemia con persone che muoiono soffocate o con il virus che danneggia il miocardio. Ecco perché è legittimo e fa pure bene pensare al dopo nella propria sfera privata, mentre quella pubblica - cioè lo stato generale in cui verseranno società e economia - è anch'esso un peso da centellinare per non deprimersi.
A casa abbiamo fatto un gioco: la vacanza che vorremmo fare, che credo che rientri in questa sorta di esercizio astratto del domani che vorremmo. Personalmente, memore di una vacanza nella ex Jugoslavia nell'estate nel 1979, ho puntato sulla Croazia con un tour in auto e poi con un soggiorno marino più stanziale, ma con visita alle isole, sull'Adriatico. Mia moglie si è esibita con un safari nei parchi del Sudafrica e allungamento al mare in un'isola del Mozambico. Il piccolo ha scovato un Club in Grecia e lì si vorrebbe fermare. Esercizio di stile, temo molto, nell'estate che verrà, visto che questa pandemia procede a singhiozzi e toccherà alla fine tutti Paesi in tutti i Continenti e, se ho capito bene leggendo il leggibile sul tema, non sparirà come d'incanto e la sola protezione verrà dai vaccini ed uso il plurale, perché par di capire che il virus è cangiante e dunque - come avviene con le normali influenze - ci sarà più di un vaccino a copertura dei diversi ceppi. Ma torniamo all'interrogativo iniziale. Cosa vorrei fare? In generale - sarà che per spirito sono un libertario - soffro delle costrizioni, anche se le rispetto. Dover girare con la famosa autodichiarazione mi dà un senso di angoscia, forse anche per la sola volta che sono stato fermato e mi sono sentito rimproverare di essere andato a portare un medicinale a mia madre novantenne e invalida, come se avessi fatto il tragitto in auto da casa mia alla sua per chissà quale divertissement. Mi pesa l'idea di avere decine di sentieri solitari alpini a due passi da casa e di non poterci andare ad allenare il corpo, sapendo quanto faccia bene anche allo spirito. Mi mancano le quattro chiacchiere con una buona cena con gli amici di sempre, l'aperitivo al bar, ho nostalgia di quel «andiamo qui, andiamo là» che animano le nostre settimane, oggi sempre uguali chiusi nel buen retiro domestico e con prevalenza di quello "smart working" che sarà pure il domani, ma che di certo mette freni alla nostra naturale voglia di socialità. Mi accorgo di come si restringano gli spazi di democrazia non solo per la vita blindata per arginare il contagio, che ci sta se non diventa una tentazione, come potrebbe essere quest'idea di aumentare ancora il controllo digitale delle nostre vite, ma anche perché il dibattito politico sulle scelte da operare è compresso dall'emergenza. Penso alla legittima richiesta, direi quasi corale per chi non ha interessi di bottega, maturata in Valle d'Aosta di avere un esperto che coordini il settore dell'emergenza sanitaria, senza nulla togliere a nessuno, contrastato dal presidente della Regione, Renzo Testolin. In certi casi il decisionismo, oltre a richiedere doti e conoscenze, deve affiancarsi alla condivisione, perché questo avviene nei momenti difficili. Chi si chiude a riccio sbaglia e più ci si incaponisce e peggio è in un loop che distanzia dalla realtà. Questa non è affatto la statuaria solitudine dei leader, ma la cocciutaggine dei comprimari che si trovano a gestire situazioni più grandi di loro e rischiano di fare danni. Finito questo periodo nero, le migliori energie valdostane dovranno riflettere sulle fragilità dimostrate dal nostro sistema e metterci delle pezze, partendo da un aspetto ricostruttivo delle Istituzioni e dell'Economia, un grande dibattito che metta in terza fila chi oggi vive l'emergenza come il periodo che intercorre verso le elezioni regionali e ci si posiziona solo per quello e non per quel "Bene comune" che, se evocato ad uso strumentale, suona come una bestemmia. Viene in mente quella strofa iniziale della canzone "Futura" di Lucio Dalla «Chissà chissà domani, su che cosa metteremo le mani» o la sua "L'anno che verrà", «Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po', e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò. Da quando sei partito c'è una grossa novità, l'anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va. Si esce poco la sera compreso quando è festa, e c'è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra. E si sta senza parlare per intere settimane, e a quelli che hanno niente da dire, del tempo ne rimane. Ma la televisione ha detto che il nuovo anno, porterà una trasformazione, e tutti quanti stiamo già aspettando. Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, ogni Cristo scenderà dalla croce, anche gli uccelli faranno ritorno. Ci sarà da mangiare e luce tutto l'anno, anche i muti potranno parlare, mentre i sordi già lo fanno. E si farà l'amore ognuno come gli va, anche i preti potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età. E senza grandi disturbi qualcuno sparirà, saranno forse i troppo furbi, e i cretini di ogni età». Queste ultime tre strofe sono le più interessanti e calzano a pennello per chi nel mondo autonomista mai rimpiangeremo.