E' difficile appigliarsi a qualcosa in questa fase storica complessa per chi crede nell'Europa e scopre con amarezza che questo contagio in corso alimenta in Italia ed anche in Valle d'Aosta un sentimento diffuso, epidermico e viscerale, di antieuropeismo. Difficile reagire di fronte a errori, goffaggini, stupidità di esponenti delle Istituzioni europee e a certi «niet» di Paesi come Germania e Olanda a richieste, in verità spesso strumentali, dell'Italia per reagire al "coronavirus" da cui è stata la più colpita. Ma, benché ci siano ragioni per indicare l'Italia di questi ultimi anni come indisciplinata e opportunista verso l'Europa, di fronte ad una pandemia bisogna, con regole opportune, valutare l'eccezionalità dei fatti e essere solidali senza pregiudizi e rigidità, altrimenti si darebbe la stura a mostri che possono di nuovo insanguinare il Vecchio Continente.
Ma questa è l'aria dei tempi, non solo ammorbata dal "covid-19", ma appunto da un ripiego nazionalistico che appare paradossale quando è evidente quanto una sciagura di scala mondiale obblighi non a chiudersi nel proprio egoismo e sciovinismo ma a riflettere in termini complessivi su come reagire all'emergenza sanitaria e alle altrettanto drammatiche conseguenze economiche ad ampio raggio. Ecco perché come una boccata di aria fresca arriva una storia del passato che conosco bene e ricorda, pur in un contesto di un romanzo, la costruzione del traforo del Monte Bianco in quegli anni Sessanta del secolo scorso, quando gli orrori della Guerra (o meglio delle guerre, pensando alla Prima e alla Seconda) apparivano come la spinta a quell'armonia da reazione che diede vita all'integrazione europea Leggo sulla pagina locale un'intervista di Gaetano Lo Presti, che così racconta: "E' un momento importante per Sara Loffredi, la scrittrice di origini valdostane che vive a Milano. Per Einaudi ha appena pubblicato il romanzo "Fronte di scavo", una storia ambientata agli inizi degli anni Sessanta durante i lavori di scavo del tunnel del Monte Bianco. Ma è anche un momento doloroso, come per tutta l'Italia, che ha bloccato le numerose presentazioni che aveva in programma (fra cui quella all'aostano Festival MontLivres), limitandola a quelle via web. «Sono a Milano, tappata in casa da un mese - racconta - Le mie finestre danno su via Ranzoni, nella zona San Siro che, normalmente, è trafficata giorno e notte. Adesso, invece, è spettrale. I miei genitori sono a Brescia, nell'epicentro della pandemia. Lì ci sono state così tante morti che la paura per l'adesso sovrasta tutto, mentre nella mia cerchia milanese c'è ansia per il dopo». E sui legami tra il libro e l'attuale situazione spiega: «Potrebbe essere la metafora del tunnel di cui ti sembra di non vedere la fine. Ma, ancora meglio, il fatto di sentirsi comunità con un unico obiettivo, che, però, nel romanzo è scelto, mentre in questa situazione è imposto. Adesso si creano barriere che, invece, nel romanzo si abbattono per creare le connessioni infrastrutturali grazie alle quali l'Europa è diventata Europa. E, comunque, alla fine questo ci dimostra che siamo tutti connessi e non puoi tenere le cose fuori da un muro". Tanto mi basta per incuriosirmi ed è bastato un clic sul mio "Kindle" per ritrovarmi in quegli anni in cui ero un bambinetto e di cui amo le storie e l'epopea dei trafori alpini spicca come un capitolo fra i più appassionanti e il libro, che è un romanzo e non un saggio, disegna tuttavia di quella avventura sotto il Bianco tratti descrittivi fondamentali. Ma queste spiegazioni, in cui si vede l'accuratezza delle ricerche, sono lo scenario di vicende umane molto delicate e con grande capacità di introspezione da parte dell'autrice che colpisce per la sua umanità. Nella nota finale si svelano molte cose, ma della storia e degli intrecci del libro nulla aggiungo perché va letto e non svelato anzitempo, partendo dalla frase che figura come premessa "«Noi faremo il giro verticale del Monte Bianco passando di sotto e tornando al di sopra della montagna. Sarà il piú grande carosello del mondo!”» Dino Lora Totino". Questo ingegnere e imprenditore biellese, che figurerà in futuro come protagonista per "RaiVd'A" di un documentario che ne ricorderà le intuizioni e le gesta, compare nel libro e la frase evoca il traforo e anche quel visionario sistema funiviario che collega ancora oggi Courmayeur a Chamonix. Aggiunge nella nota la Loffredi, offrendo una bibliografia per chi vorrà entrare di più dentro la storia politica e tecnica del traforo: «Questa è una storia vera e allo stesso tempo non lo è. Gli eventi legati alle modalità di scavo e all'avanzamento dei lavori sono rispondenti a realtà; all'interno della vastissima documentazione sull'argomento, sono stati quattro i testi fondamentali per la ricostruzione storica:
- Giuseppe Piazzo, Paul Guichonnet, "Il traforo del Monte Bianco: La realizzazione 1945-1965", Mondadori, Milano 1967;
- Pietro Alaria, "Cantiere Monte Bianco - Operazioni topografiche per il tracciamento della galleria e un po' di storia del tunnel secondo le memorie del topografo: anni 1946-1965", Collegio dei geometri di Torino e provincia, Torino 1976, da cui sono tratte le parole di Dino Lora Totino citate in epigrafe;
- Giuseppe M. Giobellina, "Il traforo del Monte Bianco - Un varco a nord-ovest", Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2012;
- Franco Cuaz, "Il traforo del Monte Bianco. Dai pionieri all'inizio dei lavori. La storia di un'idea", Conti, San Lazzaro (BO) 2017. Preziosissima la corrispondenza con Giuseppe Giobellina, che ha creduto nell'idea quando era solo una suggestione, e con Franco Cuaz, primo direttore di esercizio del tunnel, generoso di spunti. La sua intervista alla "Bbc" trasmessa nel programma "Witness" nel 2017 mi ha affascinato in maniera potente. I personaggi storici sono due: Pietro Alaria e Dino Lora Totino. Ho letto di loro tutto ciò che è stato possibile e li ho inseriti nel romanzo come presenze reali, tentando di ricostruire narrativamente alcuni episodi di cui sono stati protagonisti. Nel caso del geometra Pietro Alaria, è stato per me folgorante il suo libro, dove racconta di operazioni di topografia realizzate in circostanze epiche, salendo a piedi decine di cime ed esponendosi al rischio in prima persona. Gli altri personaggi che si muovono nel romanzo sono frutto della mia fantasia e sono funzionali alla storia che volevo raccontare, quella di uno scavo che avanza nel ventre della montagna e nell'animo di Ettore. Mi avevano consigliato di non inserire figure femminili, inusuali per un cantiere, eppure Nina ha voluto entrare in scena senza ascoltare le mie raccomandazioni. Samiel non esiste davvero, eppure i rabeilleur sì, e uno di questi mi ha rimesso in piedi, da bambina, dopo una rovinosa caduta da un albero. Mio padre ha lavorato al tunnel, negli anni Settanta: un alpinista che amava la sua montagna si è trovato a contatto con il varco che la attraversava. Quello sguardo è anche il mio». Così avete scoperto, ma come stimolo, i nomi di alcuni dei protagonisti del romanzo, che restituisce quell'afflato costruttivo, fatto di speranze e anche di tragedie come la valanga che investì il cantiere, che suona come un ammonimento di fronte alla cupezza di chi vuole oggi - e sarebbe doloroso per tanti valdostani - chiudere le frontiere, murare i confini e tornare indietro rispetto alla gioia di me, bambino, ogni volta che imboccavo con l'auto dei miei genitori il traforo del Monte Bianco o quello del Gran San Bernardo e mi sentivo in erba, per air de famille, cittadino di quella "République du Mont-Blanc" dell'utopia federalista non realizzata di Émile Chanoux.