Avere una linea d'azione originale, nel limite del possibile e del buonsenso, non è stata la decisione assunta in Valle d'Aosta e questa responsabilità è in capo in particolare alla figura apicale, Renzo Testolin, presidente della Valle, chiuso nella sua solitudine. Ciò avviene inspiegabilmente per un politico di seconda fila assurto per caso alla massima carica istituzionale, sapendo che in certi frangenti tutti sono pronti a dare il proprio contributo e a mettere da parte dispute o polemiche. Altri si sarebbero aperti al confronto e avrebbero chiesto aiuto a chi ne sapeva di più sui rapporti politici con Roma e Bruxelles (immodestamente, me compreso), lui si è sentito investito da chissà che cosa ed i suoi sono sempre stati dei «no» ad ogni logica di allargamento democratico delle decisioni da prendere in primis sullo spostamento delle elezioni e poi su altre questioni di operatività delle Istituzioni valdostane, già imprigionate dall'ordinaria amministrazione. Per non dire delle scelte sanitarie e per l'emergenza economica, in cui il presidente è sempre parso un comprimario, un ragioniere cocciuto nel suo grigiore, senza alcun rapporto utile con la politica nazionale e con i suoi colleghi presidenti in un momento decisivo.
Strana immagine di un'Autonomia speciale passiva e spettatrice di decisioni altrui, senza guizzi e iniziative, se non un decisionismo imbelle, che nasconde forse la speranza svanita di essere visto come un capitano coraggioso che sfida gli eventi. Coraggio non pervenuto e anzi certe "non scelte" rischiano di essere foriere di grossi guai, le cui responsabilità saranno condivise con chi gli ha retto la coda. Ora viene il tempo delle riaperture per convivere con il "coronavirus", aspettando il vaccino e mai come ora il rapporto fra il Governo nazionale e le Regioni occupa le prime pagine dei giornali su temi capitali per le persone, le famiglie, le imprese e tutto il resto. Nessuno sa quale sia la posizione della Giunta Testolin e del suo presidente, tranne qualche dichiarazione qua e là di singoli assessori. Esiste una strategia per la nostra Regione alpina? Esiste un confronto con realtà simili come Trento e Bolzano? Si pensa, ad esempio con l'agonizzante "AlpMed", di capire cosa faranno le zone alpine francesi e svizzeri con noi confinanti? In scala più grande, con la macroregione alpina "Eusalp" o con la vecchia "Convenzione delle Alpi", esiste qualche idea da mettere in comune per il futuro delle nostre montagne? Non penso proprio, si naviga a vista in assoluta solitudine, mentre incalzano problemi concreti che elencherò giorno dopo giorno. Vogliamo cominciare dal Turismo, che è una spina dorsale della nostra economia? Leggevo Giampaolo Visetti, giornalista di grosso calibro, su "La Repubblica" di ieri con in articolo, che è tutto un programma: "«In montagna sarà un'estate mai vista: temo la prima, dopo la fine della seconda guerra mondiale, con i rifugi d'alta quota chiusi». Antonio Montani, vicepresidente del Club alpino italiano e responsabile dei rifugi, lancia l'allarme. «Escursionisti e alpinisti - dice - dovranno adattarsi programmando gite di un giorno, oppure organizzandosi con tende, sacchi a pelo e cibo negli zaini. Sarà più impegnativo, sotto il profilo fisico e tecnico: l'emergenza però ci aiuterà a riflettere su un modello di tempo libero che in molti casi si era spinto oltre il limite»". Tende? Davvero ho letto "tende"? Cosa facciamo il Far West con accampamenti fuori dai rifugi? Prosegue l'articolo: "Certificare la negatività al coronavirus e garantire la sicurezza sanitaria di chi andrà in montagna, a certe quote, è impossibile. Per questo rifugi, bivacchi e punti tappa, dal 20 giugno, la notte non potranno aprire come prima. Senza queste strutture di presidio e soccorso, camminare e arrampicare sarà però più pericoloso. «E' il momento - dice Luca Calzolari, membro del Soccorso alpino e direttore del mensile "Montagne 360" - di aprire una riflessione più larga e più profonda sul modo di frequentare l'alta quota. L'occasione per un recupero di essenzialità e semplicità non va sprecata»". Questa visione naturalistica della montagna prescinde del tutto da una considerazione moderna di un'imprenditoria esistente e radicata anche in alta quota e da decisioni politiche che devono essere assunte da chi di dovere, al di là della data del 20 giugno che mi sfugge cosa significhi. Ma la mancanza nell'articolo di interlocutori politici è già un segno di debolezza dei decisori istituzionali. Scrive Visetti: "Il Cai gestisce 373 rifugi in tutto il Paese. Le strutture salgono a 715 con bivacchi e punti tappa di escursioni a bassa quota. I posti letto totali sono 18.568, oltre 35mila se si aggiungono quelli in rifugi privati: il coronavirus minaccia la sopravvivenza di oltre cinquemila famiglie di gestori, soccorritori e guide alpine, storici custodi delle terre alte. «Alle condizioni attuali - dice Mario Fiorentini, cadorino, gestore del rifugio Fiume sul Pelmo e presidente dell'associazione che in Veneto riunisce sessanta strutture - illudersi di una normale estate in montagna non ha senso. Ammesso che frequentarla sia possibile, il contagio imporrà regole nuove. I rifugi non sono alberghi, ma luoghi di condivisione. Si dorme in camerate comuni, i bagni sono collettivi, le cucine sono piccole, i pasti vengono consumati su tavolate uniche: l'opposto del distanziamento sociale. Si potrebbe aprire almeno come punti ristoro. Nelle giornate di bel tempo i pasti potrebbero essere consumati all'esterno. Faremo ogni sforzo, pur di assicurare un riferimento a chi sale nelle Dolomiti». Tra i gestori, su Alpi e Appennino, fragili speranze e una solida preoccupazione. Molti non potranno pagare gli affitti: se lo faranno, non sapranno come mantenere la famiglia. I rifugi però si trovano in luoghi estremi. Hanno bisogno di presenza e manutenzione costanti. «Abbiamo attivato un fondo per i gestori in difficoltà - dice Montani - ma non basta. Se si perde la stagione, serve l'intervento del governo per finanziare i rifugi che garantiranno comunque presenza, ospitalità e soccorso in casi d'emergenza. Migliaia di escursionisti ogni anno si salvano grazie all'aiuto dei gestori, solo grazie a loro i sentieri restano aperti». La risposta è già commovente. Telefonano alla sede centrale del Cai e dicono: «Noi, in ogni caso, ci saremo»“. Il tema è capitale non solo per i rifugi, le cui difficoltà strutturali sono evidenti, ma per tutto il comparto turistico e bisogna avere idee, che riguardino anche i paesi e l'organizzazione generale dell'accoglienza ai turisti e non solo la sentieristica e l'alpinismo. Qui si rischia il crac e la stagione estiva rischia di essere il drammatico prologo della stagione invernale. Visetti, più avanti nell'articolo, conclude: "Il turismo in montagna vale l'80 per cento del reddito. L'Italia è montuosa per il 46 per cento. Con rifugi e impianti chiusi, le località alpine rischiano il crack. Vietata, fino ad oggi, anche la manutenzione dei sentieri. Le piccole botteghe, gli alberghi famigliari e i contadini che vendono i propri prodotti, sono a un passo dal fallimento. «Partendo dai rifugi - dice Giuliano Masoni, gestore della Capanna Margherita, 4.554 metri di quota sul Monte Rosa, il rifugio più alto d'Europa in valle d'Aosta - va aperto subito un confronto politico sul futuro della montagna italiana. Mai come oggi la gente ha bisogno di uscire, di muoversi e di respirare aria pulita. Dobbiamo porre le condizioni per renderlo possibile e sicuro. Se lavoriamo seriamente, si può: specie in alta quota, riducendo i posti letto, con prenotazioni e sanificazione. Qui si viene per un letto, non per mangiare. I medici hanno rivoluzionato gli ospedali: noi, per vivere e garantire la sicurezza, siamo pronti a rivoluzionare i rifugi. Mandare via la gente in difficoltà non è un'opzione». Covid-19 così non risparmia boschi e rocce. «Le Alpi e l'alpinismo - dice Reinhold Messner - tornano alle origini di due secoli fa. La natura con la solitudine respira, ma non abbandonare le terre alte oggi è un dovere per evitare uno spopolamento definitivo. Altrimenti le prossime estati in montagna sorgeranno sul deserto»“. Messner ha ragione e sarebbe bene che di questo benedetto futuro, quello vicino e quello più distante, si parlasse a fondo anche in Valle, confrontandosi fra di noi e con le altre popolazioni alpine. Altrimenti si avanzerà a tentoni e non basteranno i soldi pubblici che non sono infiniti e restano i "nostri" soldi a tenere in piedi l'economia montana, specie nelle vallate più deboli.