Ormai sono molti anni che la Festa dei lavoratori, quel 1° maggio che cade domani in piena tempesta sociale ed economica da "coronavirus", è diventata, come capita alla gran parte delle giornate ufficiali di celebrazione, una data sul calendario, buona per i "ponti". Lo ha mostrato, in modo plastico, il passaggio negli anni dalle grandi manifestazioni di piazza al famoso "concertone" a Roma, che serve per attirare i giovani (i pensionati sono ormai la colonna portante fra gli iscritti) attraverso una maratona musicale con qualche slogan, bandiere al vento e poco altro, se non la legittima voglia di vivere, che ora cova nascosta dal coprifuoco antivirus. Quest'anno, infatti, non ci sarà neanche la musica di piazza di San Giovanni in Laterano ed è inutile troppo soffermarsi su come la crisi della politica si rifletta, con qualche tenuta maggiore, anche sul mondo sindacale, che resta diviso e forse lo è come non mai, ormai più prestatore di servizi che fucina di idee. Ma è il riflesso dell'Italia in cui viviamo.
Cosa dire di questo 1° Maggio, neppure utile per un week-end, visto che le timide riaperture partiranno apposta il lunedì successivo? Beh, il quadro delle difficoltà è evidente e preoccupante e si rifletterà sull'occupazione ed sarà questo il dato più macroscopico, malgrado la rete protettiva messa in piedi per evitare il tracollo. Gli interventi pubblici sono essenziali e non è facile modularli e comportano comunque per l'Italia un terribile ma necessario indebitamento, di cui bisognerà tracciare bene i confini, perché non è un pozzo senza fondo. Anche perché nel frattempo ci sarà meno crescita. Leggevo l'altro giorno, cosa scrive nella sua lettera del lunedì, quell'équipe di giovani studiosi e ricercatori del "Grand Continent", che ha fra i suoi protagonisti Gilles Gressani, valdo-parigino. Così scrivono: «Nel bel mezzo di una pandemia, i cambiamenti nelle pratiche e nelle rappresentazioni del mondo del lavoro legate alle misure di contenimento rendono il 1° maggio una data particolarmente importante». Il primo fenomeno che evidenziano è il passaggio al telelavoro (ormai "smart working" con qualche distinguo si svolgimento che non cambia la sostanza), che da fenomeno marginale è assurta a regola. Io stesso l'ho praticato tre giorni su cinque e valuto interessante l'esperienza grazie agli strumenti digitali che ti permettono contatti e scambi. Non potrei, ma il giudizio è soggettivo, immaginare che sia un'opzione a tempo pieno per chi si occupa di radio e di televisione per esigenze produttive, incontri forzatamente dal vivo e una socialità sul lavoro che resta indispensabile. In termini generali, però, il telelavoro - penso al caso di una Regione alpina come la Valle d'Aosta - potrebbe servire a ripopolare paesi di montagna, evitando la concentrazione degli abitanti su Aosta e dintorni e nel fondovalle. La mobilità notevole di pendolari, che intasano le strade, sarebbe di gran lunga diminuita. Certo, in termini generali, bisogna vigilare che il telelavoro possa perdere una dimensione locale e che certe imprese non decidano - come avvenne con i call center - di spostare altrove, anche distantissimo, certe attività. Altra segnalazione del "Grand Continent": le condizioni di lavoro nell'era di "Amazon". Si cita la celebre multinazionale come caso di scuola, in particolare per i meccanismi fordiani che si mischiano alla società digitale. Le vendite on line, compreso il prima linea il lavoro dei corrieri che consegnano la merce a casa nostra, hanno creato meccanismi di proletarizzazione e di sfruttamento piuttosto inquietanti. Interessante poi di questi tempi è la questione, manifestatasi sulla scena per via del "covid-19", delle professioni sanitarie in prima linea. Si tratta da una parte di apprezzare l'importanza di questo aspetto centrale dello Stato Sociale in un'Italia ambigua sul ruolo della Sanità pubblica, troppo spesso colpita da tagli e ridimensionamento, come il progressivo ridimensionamento dei posti letto ospedalieri e lo scarso interesse per il territorio. Ci sarà certo un ripensamento e sarà interessante vedere il perché certi modelli, come quello fortemente decentrato nella Germania federalista, abbiano finanzianti meglio di altri. Resta nelle priorità del "Grand Continent" un interrogativo: «Verso l'Europa sociale?». Lo choc in corso e la deriva antieuropeista di certa Destra e certa Sinistra pesano sul futuro dell'integrazione europea, dimenticando che l'Europa non è stata solo città di fenomeni di ultraliberismo, ma anche culla di una significativa legislazione sociale, spesso originata da quei Paesi del Nord europa oggi spesso miopi rispetto alla necessità di aiutare l'Italia in difficoltà. Ma l'Europa sui problemi del lavoro e sui problemi sociali in genere può avere ancora molto da dire e da fare. Lo Stato Sociale è, su certi livelli, una conquista dell'Unione europea e continua ad essere una ragione fondante da aggiornare e migliorare senza sosta.