Colpisce sempre quando "cervelli" della Valle d'Aosta non solo scavano nella realtà valdostana, ma dimostrano poi doti e capacità che consentono loro di svettare nelle loro professioni. Preciso che sono da sempre attratto, non solo per esami universitari dati ma per un mio interesse personale, dal vasto mondo di quella materia poliforme che è l'Antropologia. Ecco perché ho avuto una piacevole sorpresa nello scoprire dell'interessante attività di Elisabetta Dall'Ò, trovata per caso grazie ad un amico e lamento una mia colpevole distrazione per non essermene accorto prima. Ho trovato una minibiografia folgorante sul Web: «"Elisabetta Dall'Ò, Ph.D in Cultural and social anthropology, è una giovane antropologa culturale formatasi tra Milano (Bicocca) e Parigi (Sciences-Po). Si occupa di ambiente, sostenibilità, novel food, Antropocene, e climate change. In una parola: di "futuro"».
Questo mi piace molto così come il fatto che si sia occupata di cultura valdostana, come avvenuto con il libro "Il senso della morte. La valle d'Aosta tra santi e riti funebri" (Aracne), ma anche con la sistemazione del "Fondo fotografico Ugo Torra" presso il "Bureau régional etno-linguistique" della Valle d'Aosta. Fra le sue pubblicazioni legate alla Valle, c'è anche "Il rabeilleur e il corpo ripristinato", contenuto in "Piante officinali e rimedi tradizionali. Un sapere antico al servizio della modernità", pubblicato da Priuli & Verlucca. Ma in realtà è interessante quanto i suoi interessi spazino in altre settori, segno proprio di quella duttilità dell'antropologo applicata al mondo moderno e non solo con lo sguardo al passato. L'ho intervistata in radio per un articolo sulle famose mascherine che dobbiamo indossare in tempo di pandemia, pubblicato su lavoroculturale.org e ne vorrei proporre qui alcuni stralci, legati a quella parte di antropologia che si occupa dei disastri. Così spiega in una parte dello scritto: «Per la loro caratteristica di essere dei "fatti sociali totali", i disastri costituiscono un oggetto di ricerca complesso e sfidante per le scienze sociali, in grado di connettere il livello locale e il livello globale, e di investire ogni sfera della vita umana e della cultura (dalla salute all'economia, dall'istruzione alla politica, dalla comunicazione alla percezione del rischio, dai diritti umani all'ambiente, e così via). In gioco ci sono questioni che coinvolgono interessi, poteri, conoscenze, immaginari, e narrazioni dei molteplici attori presenti sulla scena sociale: esperti, scienziati, politici, tecnici, funzionari, accademici, associazioni, cittadini, e ancora giornalisti, operatori umanitari, media. Se è dimostrato che le modalità con cui i disastri vengono comunicati, percepiti e contestualizzati giocano un ruolo decisivo nel determinare le risposte dei soggetti coinvolti e nelle pratiche di intervento istituzionale, è allora altrettanto probabile che la comunicazione - altamente contraddittoria - sull'uso dei dispositivi di protezione individuale nel corso di questa emergenza, avrà delle conseguenze sull'efficacia delle misure intraprese per gestirla e superarla (governance). La "questione delle mascherine" si presta ad essere una efficace chiave di lettura del "paradigma emergenziale", paradigma che tende ad escludere (o comunque ad occultare) le responsabilità politiche che contribuiscono a rendere più vulnerabili soggetti esposti, fino a trasformare le emergenze in disastri di lungo corso». La studiosa ricorda le contraddizioni: «Mentre l'Organizzazione mondiale della sanità, alla luce dei risultati di un studio del "Mit" di Cambridge sulla capacità di propagazione del "coronavirus" nell'aria (che pare arrivare fino a picchi di 7-8 metri), sembrerebbe rivedere le sue raccomandazioni sull'uso delle mascherine - finora considerate inutili per le persone sane - e mentre il Governo italiano si prepara a dettare le misure per la "fase due" in cui si annuncia l'obbligatorietà dell'uso delle mascherine per chiunque esca di casa e finché non ci saranno i vaccini e le terapie per il virus, diviene fondamentale ripercorrere qualche passaggio all'interno della storia - tutta ancora da scrivere - della gestione di questa pandemia». Ma la questione ha un versante culturale: «Prima che il "coronavirus" si diffondesse sul territorio nazionale, l'immagine - per noi italiani almeno - più familiare associata all'uso "non professionale" delle mascherine era pressoché esclusivamente legata alla consuetudine da parte dei turisti giapponesi e degli "orientali in generale" di indossarle negli spazi pubblici per non diffondere e trasmettere i propri germi agli altri. Una pratica che si basa su di un presupposto culturale di "riconoscimento reciproco", di riconoscimento dell'"altro", e che in questi tempi di emergenza viene invocato attraverso la prescrizione "restate a casa": restate a casa per non diffondere l'infezione, restate a casa perché in prima linea a difendervi dal virus ci sono le categorie dei sanitari, che vanno protetti, restate a casa perché i posti in rianimazione non basterebbero per tutti. Una reciprocità evitante, possiamo dire, che è stata prescritta attraverso l'isolamento fisico dagli altri, nel mantenimento delle "distanze di sicurezza" dal prossimo, e a cui è conseguita la chiusura della quasi totalità delle attività produttive e lavorative in generale. Non entrerò qui nel merito della gestione delle libertà di approvvigionamento e di movimento, né mi occuperò delle nuove forme di "pellegrinaggio sociale al supermercato" che vedono esposte al rischio di contagio molte delle categorie più vulnerabili che non hanno accesso ai dispositivi di protezione individuali (o che non ne riconoscono l'efficacia o le corrette modalità di utilizzo). Mi limiterò a riflettere su come il riconoscimento di questa reciprocità (spesso purtroppo solo invocato) avrebbe potuto, anche e soprattutto nelle fasi iniziali dell'emergenza, trovare applicazione effettiva attraverso l'uso di un dispositivo che evitasse la diffusione del virus a partire dalla fonte diretta - "noi": la mascherina. In queste settimane è diventato virale su "YouTube" un tutorial che descrive le tre differenti tipologie di mascherine in commercio (chirurgiche, con valvola, e filtranti senza valvola) a seconda del loro grado di reciprocità. Le mascherine chirurgiche sarebbero quelle "altruiste", perché in grado di trattenere l'aerosol di chi le indossa ma meno efficienti nel proteggere dal virus in entrata; quelle con valvola considerate "egoiste", perché in grado di isolare dall'esterno ma di emettere attraverso la valvola i virus all'esterno; e infine vi sarebbero quelle "intelligenti" perché capaci della doppia funzione - anche sociale - di riconoscere noi e gli altri come parte di un sistema di reciprocità». Più avanti, il tema della comunicazione, essenziale durante una crisi, rimarcando proprio - ed è avvenuto ormai qualche settimana fa - come ci siano state, su queste mascherine, comunicazioni contradditorie se non sbagliate ed aggiungerei che ancora oggi sconcerta la scelta di alcuni Paesi europei di renderle obbligatorie e nei Paesi vicini si fa il contrario! Conclude acutamente Elisabetta Dall'Ò: «L'invocazione a "restare a casa", all'astinenza dalla società, come misura legittima ed efficace nel porre la giusta distanza di sicurezza tra le persone, occulta come questa stessa distanza, questo confine tra lo "spazio sicuro delle nostre case" e il mondo esterno in cui il virus è in circolazione venga costantemente negoziato e oltrepassato: il supermercato, la farmacia, la metropolitana, l'androne di casa, il pianerottolo, diventano punti di passaggio e di incrocio in cui la retorica del righello - con cui tenere il metro di distanza - perde ogni efficacia applicativa. Ma vulnerabilità, prossimità e responsabilità sono in una relazione di reciprocità. In uno studio recentissimo intitolato "Promoting simple do-it-yourself masks: an urgent intervention for covid-19 mitigation" cinque fisici spiegano come l'utilizzo delle mascherine, anche quelle autoprodotte a casa, come un qualsiasi dispositivo che indossato (sciarpa, bandana, buff...) copra le vie respiratorie, riduca in modo significativo la trasmissione delle "droplets" con carica virale e si configuri con un'efficacia del tutto analoga a quella del "distanziamento sociale" e delle misure di igiene nel limitare la diffusione del contagio (Samwald et al. 2020). Le evidenze, scientifiche, dell'efficacia di questo strumento sono state messe a disposizione in un documento di libero accesso che raccoglie i 34 studi più recenti sul tema. Cosa accadrà nelle prossime settimane? Se i dati del "Mit" verranno confermati, possiamo aspettarci un appello da parte dell'OMS e del Ministero della Salute ad un uso massiccio delle mascherine, ma da un punto di vista culturale, immaginare come risponderanno le persone, nel nostro Paese, così come nel resto del mondo, nelle prossime settimane e nel dopo emergenza, è una sfida tutt'altro che semplice. L'efficacia delle misure che verranno adottate dipenderà da una serie molto complessa di fattori, tra cui giocherà certamente anche la retorica comunicativa che ha costruito i discorsi sull'efficacia/inefficacia dei dispositivi di protezione individuale, e che abbiamo avuto solo modo di intravvedere per le mascherine». La "fase 2" passerà obbligatoriamente attraverso le mascherine.