«Il mio regno per un cavallo» (dell'inglese «My kingdomfor a horse»), è la frase che che William Shakespeare fa pronunciare al Re d'Inghilterra Riccardo III durante la battaglia di Bosworth, quando viene disarcionato dal suo destriero e nella quale finirà per essere ucciso. Il Re, crudele nel corso del suo regno, è disposto ora - con l'umiltà frutto della paura - a cederlo in cambio di un cavallo che lo che lo porti via dallo scontro. La sua è la disperazione di un uomo che offre tutto ciò a cui tiene di più in cambio della propria vita. Tutto ciò, opportunamente modificato in «Il mio regno per un cavillo» assomiglia all'aggrovigliarsi di chi a Roma come ad Aosta tiene a mantenere il proprio posto, destreggiandosi fra Dpcm, decreti legge, leggi regionali, ordinanze, linee guida e circolari esplicative a fronte di una crescente rabbia popolare che fa tremare il loro posto di potere. Ma ormai ritengo che sia tardi e neppure una pioggia di denaro potrebbe fermare qualche cosa di ancora più profondo del disagio economico.
Esemplare quanto ha scritto, giorni fa, Vittorio Pelligrain un lungo articolo per "Il Sole - 24 Ore": «Dopo lo "shock antropologico", come lo avrebbe definito Ulrich Beck, che abbiamo vissuto in questi mesi di lockdown, e ora che ci apprestiamo ad una ripartenza cauta e un po' confusa, uno dei temi che si pone con maggiore urgenza alla riflessione pubblica è quello relativo alle nostre libertà. Se siamo stati più che disposti a chiuderci in casa - il 95% degli italiani si dice d'accordo con misure severe di distanziamento sociale - per cercare di contenere la diffusione del virus nel momento di maggiore impulso della spinta epidemica; se abbiamo accettato di buon grado lo stravolgimento della vita familiare, lavorativa e scolastica, ora, nel momento della timida riconquista di una parvenza di normalità ci chiediamo fino a che punto i nostri spazi di libertà, di autonomia e di privacy saranno sacrificati al virus, alla ripartenza dell'economia, ad una nuova quotidianità che, chissà per quanto tempo ancora, sarà totalmente differente da ciò che la stessa parola semplicemente definiva anche solo pochi mesi fa. La pandemia ci ha portato via le nostre giornate, la scuola dei nostri figli, gli abbracci dei nostri cari, la libertà di muoverci, viaggiare e progettare. Ora che si allentano i vincoli, quanto di tutto ciò ci verrà restituito? Quanto e come saremo nuovamente liberi? Abbiamo percepito i provvedimenti presi dai governi in questa emergenza essenzialmente come soluzioni tecniche, su cui si è ottenuto un livello ora maggiore ora minore di consenso, ma raramente si è messo in discussione il fine della lotta al contagio. Il tema, quindi, è sempre stato tecnico e quasi mai politico. Lo testimonia lo spazio giustamente dedicato a comitati tecnico-scientifici, a singoli scienziati, alla scienza più in generale, che mai come in questi mesi, abbiamo visto al centro dell'agorà pubblica. Ma ora le cose stanno cambiando. L'accordo sui fini non può più essere dato per scontato. Man mano che l'emergenza si normalizza, il progetto di ripartenza del Paese dev'essere guidato da una visione politica, sulla quale certamente occorrerà far coagulare il consenso democratico, ma che non si potrà nascondere dietro il tema della necessità tecnica». L'autore poi sviluppa la questione in modo assai fine e approfondito attorno al tema delle libertà. Questo vale esattamente in una riflessione da ritenersi valida è necessaria anche per la piccola Valle d'Aosta. Un Consiglio regionale sfortunatamente scaduto (e con certi elementi... scadenti), ma che anche negli anni prima non è mai riuscito - a causa dei numeri mancanti nella maggioranza e per le liti in maggioranze risicatissime - ad esprimere quel ruolo capitale di legislatore e di programmazione che gli sarebbe proprio. Mentre è diventato teatro di sindacato ispettivo e di mozioni all'ultimo sangue, che alla fine sortiscono polemiche e palcoscenico ma scarsa concretezza. La Giunta, oggi azzoppata da vicende giudiziarie e con pochi membri rimasti a navigare la barca tra mille difficoltà con un capitano che ama fare da solo anche nella peggior tempesta (ed i "topi" lasciano la nave, già consci del rischio di affondamenti) non esprime più nulla se non l'attesa per le elezioni, in un logica da «lo speriamo che me la cavo». Per cui oggi ogni discussione o provvedimento viene falsato dal desiderio di alcuni di pensare più ai voti raccoglibili che al futuro. Comportamento umanissimo, che pone il problema, però, di come costruire un futuro per la nostra Valle che non sia solo la legittima speranza di partiti, movimenti e loro candidati di emergere. Non ho risposte certe e si può anche scegliere di far finta di niente e barcamenarsi come si fa oggi, in una logica ben espressa dalla risposta del presidente della Regione Renzo Testolin alle critiche de "La Stampa", in cui si parla dei doveri del buon amministratore, dimenticando che un eletto è anche un politico e come tale, nel pozzo profondo di una crisi, deve offrire prospettive e non il piattume. Forse bisognerebbe, come ad un certo punto è avvenuto nel mondo intero, sincronizzare gli orologi e senza minestroni in cui tutto si confonda capire quali siano le priorità della ripartenza e le certezze e le necessità a favore del futuro dell'Autonomia, oggi impantanata. Programma non semplice, ma neppure rimuovere la questione, guardando appena poco al di là del proprio naso, pare essere la soluzione.