Sotto il titolo "Il rischio della democratura", il direttore di "Huffpost", Mattia Feltri, con lucidità si occupa di un tema fondamentale, così riassunto nelle prime righe: «In un Paese in cui il populismo sta al governo non si può stare tranquilli se il premier dichiara di voler prolungare lo stato d'emergenza fino a dicembre. Altri sei mesi d'arbitrio proprio no». Prima di proporvi i ragionamenti annessi e connessi, sia chiaro che quando si parla di Assemblee elettive e del loro ruolo rispetto agli Esecutivi questo vale papale papale anche per i sistemi regionali, dove i presidenti di Regione, con le loro ordinanze, hanno usato strumenti simili ai decreti del presidente del Consiglio dei Ministri. Strumenti che sono stati usati senza un reale controllo di Parlamento e Consigli regionali. Ciò poteva starci, pur con molti dubbi, nel concitato esplodere della pandemia, oggi riproporre quel modello comprime ruoli e poteri costituzionali delicatissimi.
Così Feltri: «Se fossimo in un altro mondo potremmo berci sopra una birra alla proposta del presidente Giuseppe Conte di prolungare a fine anno lo stato d'emergenza. Passerà dal Parlamento e otterrà il permesso, anche di insistere con i dpcm, i decreti del presidente del Consiglio, quel simpatico modo di legiferare per cui il premier dispone e impone, col disturbo di doversi accordare con sé stesso, più o meno, e senza nemmeno fare un fischio agli eletti. Potremmo berci sopra una birra se non fossimo davanti a un governo non raramente inconsapevole della forma e della sostanza a fondamento delle democrazie liberali». Saranno riflessioni dure ma del tutto legittime e stupisce che sul punto il massimo rappresentante della Regione autonoma Valle d'Aosta, Renzo Testolin, taccia, chiuso nella solitaria trincea di piazza Deffeyes. Ancora Feltri: «Quando è nato il governo giallorosso, in sostituzione del gialloverde, con maggioranza in Parlamento ma in minoranza nel Paese, lo si benedisse, con qualche ritrosia, sul calcolo di Catalano che avere un partito populista a Palazzo Chigi è meglio di averne due, e nella speranza che il nuovo socio, il Partito Democratico, lasciasse prevalere quel che resta della sua sapienza istituzionale sul suo, di populismo. Non è successo. Nel rapporto con la democrazia parlamentare e con l'amministrazione della giustizia, la sapienza istituzionale ha ceduto come i pantaloni senza cintura. Si va avanti con la passione dei ghigliottinatori di Place de la Concorde nel taglio punitivo dei parlamentari, non dentro una riforma complessiva, ma nell'idea a cinque stelle di far fuori una percentuale di intrallazzoni e di mangiapane a tradimento, nella spedizione a serramanico contro i vitalizi a qualche residuale decina di ottuagenari o centenari, e non in nome della solidarietà, ma della restituzione del bottino, nell'andazzo progressivo del governare con la lama alla gola della fiducia, della decretazione d'urgenza, e ora con la passeggiata di salute dei dpcm, coi parlamentari felicemente ridotti allo status di ospiti dei talk e di smanettatori da social, e nella paciosa indifferenza dei presidenti delle camere, una ricordata per l'elogio al parlamentarismo cinese, l'altro per l'indisponibilità a evolvere dal calibro del più intelligente del centro sociale. Si va avanti con la dottrina dei giustizieri della notte, si abolisce la prescrizione, consegnando gli imputati a una potenzialmente eterna presunzione di colpevolezza, cioè al preciso ribaltamento del postulato costituzionale, e si continua a fare i vaghi sull'autentico disastro della giustizia italiana: il più alto numero d'Europa di detenuti in attesa di giudizio, cioè di innocenti per mancanza di prova contraria, alimentato come debito pubblico dalla media di mille di noi - domani potresti essere tu, potrei essere io - arrestati ogni anno e successivamente discolpati. Successivamente a un soggiorno in cella. L'assuefazione inibisce lo scandalo. Non ci importa. Ma il modo in cui trattiamo gli eletti, cioè i rappresentanti della volontà popolare, e la giustizia, cioè quello che dovrebbe essere l'insormontabile muro della nostra libertà personale, e dunque le due grandi roccaforti della democrazia liberale occidentale, dimostrano che la democrazia italiana ha già molto della democratura, la forma di governo teorizzata da Viktor Orbán: la democrazia illiberale. (A proposito: i paralleli fra Conte e Orbán proposti dall'opposizione non stanno in piedi e non aiutano a risolvere il problema. Lo stato d'emergenza, concluso in Ungheria ma la cui ripresa è nella disponibilità del governo, ha consentito a Orbán di legiferare su tutto, e per esempio di introdurre la reclusione a cinque anni per chi diffonda fake news, naturalmente a giudizio di Orbán medesimo, mentre Conte può soltanto varare atti amministrativi nell'ambito esclusivo della pandemia)». Feltri è andato fuori tema? No, perché la sua indignazione mostra come ci sia in Conte e nel suo Governo un germe illiberale, che fa del virus un pretesto per atteggiamenti mentali e norme concrete inquietanti, se non frutto di meccanismi partecipativi. Così conclude Feltri e sottoscrivo: «Capite perché un presidente del Consiglio che riproponga per sé altri sei mesi di arbitrio, e lo riproponga con un'enfasi inferiore di quella impegnata per i suoi rendez-vous a Villa Pamphili, ci suggerisca di rinviare la birra e di sollecitare una riflessioncina?». Giusto: meglio distrarsi, perché qui sono in gioco diritti fondamentali e regole costituzionali, che una volta disapplicati si indeboliscono per sempre.