Giuro che mi darò più regole sull'uso del telefonino. Mi riferisco a questo strumento ormai indispensabile, penetrato nella mia vita quando ero trentenne e che piano piano, in modo avvolgente, è diventato un oggetto che porto con me come 5,9 miliardi di persone (giuro!). Sappiamo bene che espleta tante funzioni utili in uno spazio ridotto: oltre al primigenio uso telefonico, è agenda, messaggistica varia, libreria fatta di app che servono a mille usi, tipo coltellino svizzero e soprattutto porta d'accesso all'infinito mondo del Web. Ora come non mai è indispensabile e lo si vede in modo plastico quando ci manca la connessione, muore la batteria o lo smartphone si rompe. Fa specie pensate che saranno apparati legati all'intelligenza artificiale, integrati alla vista o al cervello, a fare le veci rafforzate del vecchio telefonino, che sembrerà tra pochi anni arcaico come i vecchi telefoni di casa o le cabine telefoniche ormai sparite.
Ma, intanto, come dicevo devo darmi una regolata e mi viene da sorridere perché sto scrivendo dal mio fido "iPhone" sul suo "Notes". Ho chiesto a "Siri" se uso troppo il telefonino e lei, in barba ai sistemi Apple che ormai monitorano l'uso dell'apparato, mi risponde soave: «Non c'è problema!». Perché, invece, io mi pongo il problema? Perché trovo su di un giornale la parola inglese "phubbing". Perché, invece, io mi pongo il problema? Perché trovo su di un giornale la parola inglese ”phubbing”. Un termine nuovo, nato dalla fusione delle parole "phone" (telefono) e "snubbing" (snobbare), che indica l'ignorare o trascurare il proprio interlocutore concentrandosi sul proprio smartphone. Con orrore ragiono sul fatto che capita anche a me non solo nel vis à vis, ma anche durante riunioni e conferenze, nella speranza, che è un'illusione, di poter prestare la medesima attenzione a due cose assieme. Capita non solo al lavoro, ma anche nelle relazioni sociali tra amici o in famiglia. Tutti insieme fisicamente, ma assorbiti dal flusso incessante del proprio telefonino. Leggo di uno studio condotto dall'Università del Kent, che segnala quanto verifichiamo ogni giorno banalmente in una sala d'attesa e cioè un peggioramento della comunicazione e delle relazioni interpersonali. Facile collegare tutto al famoso termine "Internet addiction", che fu coniato nel 1995 da Ivan Goldberg, che si riferisce all'uso compulsivo di Internet, determinando un vero e proprio disturbo. Leggo dell'esistenza di queste tipologie su cui riflettere e così concludo:
"Information-overload: la ricerca compulsiva di informazioni on-line. Nel 1997 è stata condotta una ricerca basata su un campione di mille persone provenienti da Stati Uniti, Hong Kong, Germania, Singapore e Regno Unito dal titolo: "Glued to the screen: an investigation into information addiction worldwide". Il 54 per cento del campione della ricerca sostiene di esperire una forte eccitazione quando riesce a trovare ciò che stava cercando e il cinquanta per cento passa molto tempo a cercare informazioni in rete. Cybersexual-addiction: l'uso compulsivo di siti pornografici o comunque dedicati al sesso virtuale. E' una delle tipologie più frequenti. Le principali attività sono flirtare e instaurare relazioni amorose, ma non sempre si tramutano in conoscenze e relazioni reali. Computer-addiction: l'utilizzare il computer per giochi virtuali, soprattutto giochi di ruolo, in cui il soggetto può costruirsi un'identità fittizia. Il soggetto può avere un'identità parallela: o esprimersi liberamente per ciò che è, grazie all'anonimato, oppure "indossare", proprio come una maschera, delle nuove identità".