Per molti giorni abbiamo vissuto, sotto Palazzo regionale, nella piazza intitolata al grande politico Albert Deffeyes (cui è dedicato un busto), una ressa di giovani adolescenti in gruppo, mentre l'emergenza sanitaria richiedeva prudenza. Una presenza potenzialmente simpatica, se non fosse inquinata dalle azioni teppistiche di sporcatori seriali con birre per terra e chissà cosa di altro, che ha obbligato a pulizie delle pietre della pavimentazione (con macchie indelebili) ed alla rimozione di rifiuti da bagordi. In sostanza uno schifo fra urla e schiamazzi. In certe circostanze questa vicinanza al Palazzo dei giovani, se tutti civili, avrebbe fatto piacere, ma di questi tempi chi a pochi metri si riuniva per discutere fra politici e tecnici della pandemia e chiedeva a tutti attenzione ad assembramenti e comportamenti, si trovava di fronte al paradosso di chi non rispettava le regole in una specie di "zona franca".
Dimostrazione che in larga parte del mondo giovanile si è sottostimata la malattia, consci forse dei pochi rischi dei giovanissimi, che restano veicolo del contagio per gli altri. Ed è quanto dovrebbe spingere alla prudenza per i propri cari. Ma in realtà fa impressione un fenomeno esattamente concomitante e riguarda le persone più anziane, che sono quelle davvero più a rischio che, specie nei paesi, non demordono e non si proteggono. Un mio corrispondente su "Twitter" mi ha scritto della legittimità del comportamento della nonna molto anziana di scegliere di vivere quel che resta da vivere in libertà ed il ragionamento potrebbe starci, se poi gli imprudenti non intasassero ospedali e rianimazioni. E non andassero spesso di fronte a morti dolorose ed in solitudine, cui forse non avevano pensato. Giovani e anziani, ai lati opposti dell'esistenza umana, che paiono accomunati da modalità scorrette di affrontare il virus. Pensare che sono molte ed ammonitrici le testimonianze di chi l'ha avuta questa malattia e - non avendoci rimesso le penne - racconta di una lotta faticosa e di una spossatezza da cui è improbo riprendersi. Davide Bongiovanni, talentuoso regista valdostano, ha più di tutti, in un suo film, per ora in versione corta, raccontato il dolore e la partecipazione e la trasformazione della comunità valdostana nella prima ondata pandemica. Storia che parla - così nel descrittivo - del "grave impatto fisico, emotivo, culturale e psicologico che la malattia respiratoria covid-19, ha avuto nella prima ondata (e sta avendo) sulla popolazione, ma non solo". Di tutto questo si occupa "(R)esisti", cortometraggio-documentario di venti minuti che mostra i cinquanta giorni (dal 20 marzo al 22 aprile 2020) che l'autore ha vissuto immerso nell'inferno del "covid-19" e che è stato selezionato al 38esimo "Torino Film Festival", nella sezione non-competitiva "fuori concorso". L'ho visto in anteprima e ne sono stato colpito e commosso profondamente per la crudezza sempre poetica ed il messaggio forte di solidarietà e di speranza, che indica la luce dopo tanta cupezza che ha tornato ad avvolgerci. E' un docufilm che resterà a testimoniare queste nostre tribolazioni.