Ragionare sulle cose ritengo sia sempre stimolante e questo può valere anche per incursioni, magari arrischiate, su temi diversi da quelli che tratto normalmente. Di questi tempi poter non parlare di pandemia mi dà conforto, perché il tema, pur decisivo, talvolta rischia di virare verso l'ossessione. E' il caso dell'argomento complicato e discusso di cui parlerò, e certo non pretendo di esprimere nessuna verità. Trovo su "Le Monde" un'intervista-ritratto di Hubert Prolongeau ad una grande guida alpina francese, Philippe Barthez, originario dei Pirenei. formatosi a Chamonix e poi giramondo con un curriculum invidiabile. Dice: «La période de l'alpinisme conquérant est passée. Notre métier, aujourd'hui, c'est ramener tout le monde. Et pour cela il faut savoir prendre des décisions. Les bonnes. Au bon moment. A ces moments-là, on se retrouve seul. Quelques-uns de mes clients grimpent mieux que moi. Quand tout se passe bien, ils passent même en tête. Mais, quand il y a des choix difficiles, le guide redevient le guide».
E' un interessante approccio, che prescinde - lo dico perché non c'entra con il contingente - dalla polemica in Valle d'Aosta sullo scialpinismo, che sarà riaperto a tutti appena possibile, ma che mostra una consolante passione verso la montagna. L'impostazione della guida francese è utilizzabile come logica importante nella formazione di chiunque di noi e in qualunque disciplina. Mi riferisco alla professionalità e all'esperienza come un valore. Ci penso spesso anche come caratteristiche applicabili in Politica, constatando come questo manchi: c'è chi salta passaggi e ne vediamo le conseguenze. Ma torniamo al punto e cioè alla montagna ed a come porsi con un altro flash di Barthez: «L'alpinisme sérieux, l'alpinisme de la douleur, ça me fatigue. Je préfère y voir le plaisir et la beauté». Io stesso da giornalista ho seguito molte imprese alpinistiche - ricordo Renato Casarotto sul trittico del Freney nel 1982 - con il rischio sempre di cadere nel racconto della progressione nella retorica del pericolo, della volontà sovraumana, della fatica come cifra. Ho letto la storia dell'alpinismo di Massimo Mila, biografie dei grandi dell'alpinismo e persino film che raccontano di scalate più o meno fortunate. Ho sempre avuto i brividi ed anche ammirazione a leggere certe storie, ora esaltanti ed ora terribili. Ho spesso stentato a capire - immagino per miei limiti - questa maledizione dell'aria sottile e del desiderio, venato di irrazionalità, di rifiutare l'ossigeno, considerato un approccio meschino per chi scala gli Ottomila. Così come mi ha sempre stupito il coraggio talvolta trasformato in sfida con la morte e anche la ricerca di competizioni impossibili con sé stessi in questo mondo élitario di competitori, che non è da tutti imitare. Questa semplice frase che evoca «plaisir» e «beauté» è un approccio trovato dopo un carriera fatta di pericoli e di azzardi. La trovo una scelta molto umana, che spazza via certa retorica della «morte amica» che ho letto nelle dichiarazione di troppi grandi. Nel solco troppo spesso della constatazione, per altro ovvia, che salire le alte cime significa assumersi una dose di rischi superiore ad altre attività, ma questo mi pare di poter dire che è ben diverso dalla ricerca dell'irrazionale, quando il limite non è più neppure calcolato o le conoscenze non consentono di superare certi ostacoli. Tornare indietro, quando salire una vetta può diventare una roulette russa, è stata la caratteristica di chi ha saputo ragionare. Gira che ti rigira questo alla fine diventa il punto e dimostra come i modelli siano importanti non solo per chi primeggia per doti e capacità, ma per tutti coloro che decidono di avere in loro dei punti di riferimento e mi piace la saggezza di Barthez.