Ah! La legalità! Quante cose vengono dette in suo nome. Lo dico a chiusura della settimana della legalità nelle scuole della Bassa Valle d'Aosta. Iniziativa lodevole, scevra - così mi pare - dai rischi di certi automatismi e giaculatorie sul tema. A me la legalità, di primo acchito, ha fatto venire in mente la famosa triade della Rivoluzione francese: "Liberté, Egalité, Fraternité", naufragate in qualche modo con la ghigliottina a manetta nel periodo del Terrore, cui si può davvero associare la violazione della "Legalité", nel momento in cui lo Stato adopera il Diritto per nefandezze. Ma questa parola, "Legalità", riecheggia in Valle d'Aosta l'insieme negativo delle inchieste legate alla 'ndrangheta, in parte già a processo, in parte ancora in fieri e si rimanda di settimana in settimana l'arrivo, forse devastante, degli esiti di "egomnia", com'è stata chiamata l'inchiesta. Personalmente credo che non ci sarebbe niente di peggio di essere omissivi, nel rispetto certo del principio di non colpevolezza sino a sentenza definitiva, perché gli aspetti non sono solo penali ma anche morali.
Chi ricordi il vecchio carcere di Aosta, la Torre dei Balivi, sa bene che quel piccolo carcere ospitava prevalentemente balordi e ladruncoli, perché nella nostra piccola Regione alpina la delinquenza era poca cosa e non esistevano forme di criminalità organizzata. L'immigrazione calabrese dagli anni Sessanta in poi (dovuta non solo da motivi economici e sociali, ma spinta anche da chi voleva un nuovo bacino elettorale) ha creato in Valle, ormai largamente integrata, una comunità che ha fortemente contribuito allo sviluppo dell'economia valdostana e solo una minoranza infima ha portato il virus della malavita. Questi piccoli nuclei, che ai tempi in cui ero deputato ed anche presidente della Regione, veniva considerata - su mia esplicita richiesta a Magistratura e Forze dell'ordine - come «insignificante» ha invece messo radici. Ciò è avvenuto anche in parte del milieu politico autonomista per colpa di chi ha cominciato a giocare con il do ut des dei voti in una zona grigia che ha sortito i suoi frutti avvelenati, che oggi constatiamo. Non c'è bisogno di essere professionisti dell'antimafia, come ricordava con qualche inquietudine Leonardo Sciascia, per preoccuparsi di quanto è avvenuto e per lavorare su di una cittadinanza consapevole e su una politica senza macchia. Ma bisogna anche evitare, usando due vecchie espressioni popolari, «di fare di tutta l'erba un fascio» e «di buttare il bambino con l'acqua sporca». La Valle d'Aosta non è l'Aspromonte martoriato dalla 'ndrangheta e dirlo non significa affatto sradicare quanto deve essere sradicato o offrire alibi o giustificazioni per chi verrà, infine, condannato per reati di stampo mafioso. Non esiste sul tema nessuna possibile indulgenza, proprio perché chi ha importato e chi ha trafficato in sede locale con certe forze maligne deve pagare e non esiste angolo scuro che non debba essere illuminato senza alcuno sconto possibile. Bisogna mantenere in questo cammino i nervi saldi ed evitare, tuttavia, una trappola e mi spiace doverlo sottolineare nuovamente. Non sopporto più chi oggi dipinge la storia dell'Autonomia valdostana, dal dopoguerra ad oggi, come un concatenamento di chissà quali nefandezze, bruciando sul rogo tutti senza alcuna distinzione, spesso dai banchi di una "inquisizione" fatta di personaggi dubbi, spesso rancorosi per vite mal vissute e carriere mai realizzate rispetto ai propri sogni, che mai affrontano il tema con lucidità, ma spargono il letame su tutto e tutti. Nessuna nega, lo ribadisco, il diritto-dovere di sapere tutto, ma basta con ammiccamenti, battutine, allusioni: ci vogliono serietà e competenza. Così come non vanno bene, dal lato opposto, sottovalutazioni o misconoscimento della realtà, perché - come scriveva un politico di lungo corso che amava la Valle d'Aosta - Vittorio Foa sul "Male": «Finiremo tutti colpevoli per non aver capito che i mali grandi e irrimediabili dipendono dall'indulgenza verso i mali ancora piccoli e rimediabili».