Il "tampone", termine nuovo cui ci siamo abituati, che sia "rapido", cioè che ti diano il risultato dopo pochi minuti, o "molecolare", che prevede un'attesa ben più lunga, innesca dei pensieri sulle parole. Capita poi che ciò possa avvenire quando sei seduto in auto, mentre aspetti l'esito, dopo che ti hanno ravanato nel naso alla ricerca delle eventuali tracce del virus. Sei posizionato all'uscita di quei tendoni in cui sei entrato poco prima con la macchina e, stando seduto sul tuo sedile, l'infermiere ha effettuato l'operazione, in quella struttura che è stata definita "drive-in". E già cosi vien da sorridere. Scavando nella memoria per la mia generazione, "drive-in" era un'americanata anni Cinquanta da telefilm, vale a dire un locale pubblico (per esempio un ristorante, un cinema o un teatro) in cui si può ricevere il servizio rimanendo in automobile.
Oppure, ancor di più, un simbolo dell'Italia anni Ottanta, visto che "Drive In" fu un programma televisivo italiano di genere commedia ideato e scritto da Antonio Ricci, trasmesso con cadenza settimanale in prima serata, dal 1983 al 1988 su "Italia 1". Riscosse un grande successo, entrando nel costume nazionale del tempo come esempio delle novità delle televisioni private e contribuendo a portare alla ribalta numerosi personaggi dello spettacolo italiano, comprese alcune ragazze... procaci. E invece oggi è diventato simbolo di questi tempi grami e di un virus che ha cambiato la nostra vita. Poi in attesa viene il pensiero sulla distonia fra la parola "positivo" e quella "negativo". "Positivo" in linguaggio medico, come conseguenza dell'analisi, diventa un esito... "negativo" e l'inverso vale per "negativo" in una confusione lessicale, che fa il pari solo con la risposta a certi quesiti referendari in cui devi dire "no" per dire il contrario! Poi ti inchini di fronte alla "Treccani" e per capire devi sforzare le meningi, tipo l'incipit della definizione: «poṡitivo, aggettivo, dal latino tardo "positivus", proprio "che viene posto", usato soprattutto nel significato grammaticale, derivato di "ponĕre, porre", participio passato "posĭtus". 1. In generale, che è posto come dato sul piano della realtà oggettuale, e come ciò che è affermato, prescritto sul piano logico e giuridico». Tocca oggettivamente rileggerlo più volte. Poi si dettagliano i diversi usi, come: «che è stato stabilito per istituzione divina o umana, quindi per atto di una libera volontà (distinto da "naturale" e da "necessario"): "legge positiva", sanzionata da un legislatore; "diritto positivo", l'insieme delle norme che costituiscono l'ordinamento giuridico effettivamente vigente in uno stato; "religione positiva", quella che ha un'origine storica determinata nella persona di un iniziatore e che si sviluppa storicamente nel tempo dandosi proprie strutture e istituzioni». Si dà poi atto del suo uso come aggettivo o avverbio, avventurandosi poi «nella logica, termine usato talvolta come equivalente di "affermativo": "giudizio positivo", quello che pone, o afferma una qualità, un modo di essere. In logica formale, "formula positiva", una formula in cui non compaiono né negazioni né implicazioni». Su quest'ultima le mie unghie scivolano sullo specchio. Per non dire del successivo che implica uno sforzo iniziale: «in relazione con i valori traslati di "porre" (in contrapposizione a "negativo"): "ordine, comando, precetto positivo" che prescrive di fare qualche cosa (quello negativo, invece, vieta di fare, prescrive di non fare, una cosa)». Vi risparmio tutto il filone legato al "positivismo" ed approdo a cose più comprensibili come «con valore avverbiale, positivo, in risposte o come inciso: "Credi che accetterà?" "Positivo!"» o «anche, nel linguaggio colloquiale, in modo ottimistico, con fiducia: "pensare positivo"». E' ancora, con evidenza: «riferito a persona, che ha il senso della realtà, che bada soprattutto ai fatti, a ciò che ha consistenza e concretezza, e non si perde in chiacchiere e in fantasticherie né si lascia da queste allettare». Infine, per tornare al punto: «contrapposto a "negativo", con accezioni varie: "di cosa che ha ottenuto l'effetto voluto o desiderato o previsto: l'esame è stato positivo o ha dato esito positivo"». Poi il colpo di scena che ci colpisce con il "covid-19": «con significato analogo, nel linguaggio medico, di responso diagnostico che conferma il sospetto formulato, che integra affermativamente un giudizio diagnostico, e va quindi inteso in senso non benigno, sfavorevole cioè al soggetto esaminato». Caspita! Ma com'è possibile contraddire tutto quanto detto prima? Misteri della lingua! Idem per "negativo", che nel caso appunto del virus è un sospiro di sollievo. Per cui usare la "Treccani" per il "negativo" non è che una conferma e vi risparmio lo spiegone precedente: «nel linguaggio medico, di responso diagnostico che non conferma il sospetto formulato, e va quindi inteso in senso benigno, favorevole cioè al soggetto esaminato: "le analisi hanno dato esito negativo"; "esame radiologico, batteriologico, sierologico negativo"». Così e dunque quando ti arriva un responso medico, rispetto all'uso comune, ti tocca ragionare se il positivo è... negativo o positivo!