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14 ago 2021

Lo stupore

di Luciano Caveri

L'emozione della "sorpresa" è una straordinaria scarica di adrenalina, che al posto di allertarci per un pericolo incombente diffonde il suo calore e stimola la nostra attenzione in favore della "meraviglia". Ecco, "meraviglia" mi piace molto, ha un che di fiabesco e favoloso. L'Etimologico ne ricorda i significati: "motivo di ammirazione; reazione di stupore o di sorpresa. Formazione romanza di origine latina: latino "mirabĭlĭa, cose straordinarie, sorprendenti", nome plurale reinterpretato come femminile singolare dell'aggettivo "mirabĭlis -e, straordinario, sorprendente", derivato di "mirāri, meravigliarsi". Segue l'elenco nelle varie lingue: francese "merveille", occitano "meravelha", catalano "meravella", spagnolo "maravilla", portoghese maravilha". Ricorderei anche l'inglese "marvelous". Ricordo Platone: «La meraviglia è propria della natura del filosofo; e la filosofia non si origina altro che dallo stupore».

A me piace lo stupore. Trovo che sia una specie di choc che ti risveglia dal rischio del torpore quotidiano. Bisogna fare in modo che questo approccio mai si spenga. Mi ha sempre fatto sorridere nei bambini quel periodo in cui ti bombardano di domande dalle più banali a quelle vastamente esistenziali. E tu, ad esempio genitore, ti trovi spesso balbettante. E' un loro modo per capire il mondo e mantengono quella scossa salutare di stupirsi. Io mi stupisco (a dire il vero non sempre in positivo...) quasi ogni giorno. Ad esempio mi meraviglio del tentativo di umanizzazione degli animali da compagnia, quando invece - poverini - mancano proprio della... meraviglia. Lo diceva Arthur Schopenhauer: «Ad eccezione dell'uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza; anzi, per tutti gli altri esseri l'esistenza è una cosa talmente ovvia, che essi non la notano. Da questa coscienza di sé e da questa meraviglia nasce allora quel bisogno di una metafisica che è proprio dell'uomo soltanto: questi è quindi un animal metaphysicum». Bella definizione e viene in mente lo scrittore francese Stendhal. Fu proprio lui a descrivere nell'opera "Roma, Napoli e Firenze" scritta nel 1817, gli effetti di quella patologia psicosomatica (chiamata non a caso "sindrome di Stendhal"), sperimentata in prima persona. Stendhal in effetti racconta che, durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze, fu colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l'uscita dell'edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d'arte scatenò nel suo animo. Una certa estasi che mi è capitata, senza sentirmi... malato, in certi luoghi del mondo per natura o per cultura. Un'attitudine di sguardo aperto, curioso, indagatore da non perdere mai. Altrimenti si fa la fine descritta da Albert Einstein: «Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per cosi dire morto; i suoi occhi sono spenti». Amen.