Ogni tanto si scopre di aver pensato una cosa sbagliata. Meglio tardi che mai per correggersi. Mi occupai in passato dei Parchi, in particolare della legge-quadro, quando se ne discusse una trentina di anni fa, con l'approvazione su mia iniziativa alla Camera di norme di tutela decisive per il nostro "Parco nazionale Gran Paradiso". Un Parco alpino che si avvia al secolo di vita e l'occasione sarà utile per discutere sul futuro delle aree protette. In quella stessa occasione emerse la proposta sconclusionata di un "Parco del Monte Bianco", mai discussa con nessuno, da cui nacque in alternativa l'Espace Mont-Blanc, rimasto però né carne né pesce, come si è ben capito dal recente anniversario con una manifestazione celebrativa senza sostanza, cui non mi hanno neppure invitato, benché fossi stato uno degli ideatori ed oggi abbia la delega sulla cooperazione transfrontaliera.
Da allora mi è capitato spesso di ragionare sul termine "antropizzazione", adoperato come il prezzemolo dagli ambientalisti del «no» (categoria ideologizzata e infantile) anche rispetto alle Alpi. La filosofia che sottende questa parola si basa sull'idea che la presenza umana turbi gli equilibri naturali e naturalmente nel caso delle nostre montagne, tolte le alte cime, si tratta di un'evidente castroneria, che vagheggia e vaneggia attorno a paradisi da Eden con un'economia da sussistenza. Anche la parola "wilderness", cioè "terra selvaggia", applicata ai territori alpini mi è sempre parsa non solo infondata, ma incardinata in teorie che hanno radici cupe. Ritenevo, però, che avessero ragion d'essere per gli Stati Uniti nel nome di Parchi antichi e davvero... selvaggi. Ora faccio ammenda, dopo aver letto un articolo molto interessante sul numero estivo della meritoria rivista "Internazionale", che pubblica il meglio del giornalismo mondiale. Ebbene, in un lungo reportage, il giornalista, nativo americano, David Treuer su "The Atlantic", racconta il dramma dello sradicamento delle tribù indiane da quei territori diventati Parchi negli Stati Uniti e "venduti", pure a me, come «disabitati». Già nel sommario dell'articolo c'è tutto il senso: «Negli Stati Uniti ci sono centinaia di parchi nazionali, molti dei quali sono stati creati sui terreni che il governo ha strappato ai popoli indigeni d'America. E' il momento di fare giustizia». I racconti proposti sono drammatici e svelano la violenza con cui furono rubati e occupati territori venduti oggi come «vergini». Spiega l'autore: «Fin dall'inizio i parchi sono stati concepiti come cattedrali naturali, paesaggi protetti dove le persone potessero ammirare il sublime. Ancora oggi offrono agli statunitensi l'emozione di rivolgere lo sguardo verso un mondo senza esseri umani e senza tecnologia. Molti li visitano cercando qualcosa che si trova al di fuori o al di là di se stessi, per provare un senso impressionante di grandezza, per contemplare quanto siamo piccoli o effimeri. E' per questi motivi che John Muir, il padre del conservazionismo moderno, si batté per la creazione dei parchi. Più di un secolo fa, sulle pagine dell'Atlantic, Muir descrisse l'intero continente americano come un giardino incontaminato, "privilegiato rispetto a tutti gli altri parchi e giardini selvatici del globo". In realtà il continente nordamericano non è un posto incontaminato da almeno quindicimila anni: molti paesaggi su cui un giorno sarebbero nati i parchi nazionali sono stati plasmati per millenni dai popoli nativi. Quando sbarcarono sulla costa orientale, i coloni bianchi trovarono foreste rigogliose perché i nativi le avevano incendiate strategicamente per aumentare le quantità di foraggio per gli alci, i cervi e i caribù dei boschi. Anche il paesaggio sublime della valle di Yosemite era stato curato dai popoli nativi; le ghiande che sfamavano i Miwok venivano dalle querce nere coltivate per anni dalla tribù. L'idea di un paesaggio completamente vergine - un Eden incontaminato dagli umani e libero dal peccato - è un'illusione». E si aggiunge: «Si sente spesso dire che i parchi nazionali sono "la migliore idea dell'America", e ci sono molti motivi per essere d'accordo. Sono luoghi magnifici, che vanno venerati e tutelati, come vi diranno per primi i nativi americani come me. Ma tutti quei parchi sono stati creati su una terra che un tempo era di noi nativi, da cui siamo stati allontanati con la forza, a volte da un esercito invasore, altre volte dopo essere stati costretti a firmare un trattato. I parchi nazionali e le riserve per i nativi sono nati nello stesso periodo. Commentando questo fatto Alce Nero, la guida spirituale degli Oglala Lakota, osservava amaramente che gli Stati Uniti "hanno fatto piccole isole per noi e altre piccole isole per i quadrupedi, e queste isole stanno diventando sempre più piccole"». Comprensibile, dunque, l'auspicio: «Viviamo in un'epoca in cui la storia viene rivisitata, in cui sempre più spesso le persone riconoscono che i peccati del passato si riflettono ancora sul presente. Per i nativi americani, a cui è stata rubata la terra, non può esserci risarcimento migliore della restituzione della terra. E per noi nessuna terra è importante - a livello spirituale - come quella dei parchi nazionali. Devono esserci restituiti. I nativi devono tornare a curare, proteggere e preservare questi giardini prediletti». Utile ragionarci.