E' del tutto evidente come i referendum su cui si stanno raccogliendo le firme, vale a dire quello sull'eutanasia, la raffica di quesiti sulla Giustizia e la proposta sulla liberalizzazione della cannabis, hanno una motivazione politica: smuovere un Parlamento inerte, senza troppe distinzioni fra i gruppi. Il primo ed i secondi li ho firmati ai banchetti, mentre il terzo viaggia bene, pur avendo avuto problemi con i Comuni, anche perché i promotori sono stati i primi ad aver usufruito della possibilità di adoperare lo "spid". Rispetto alla consueta raccolta delle firme cartacee si apre una grande semplificazione, forse persino eccessiva. Un "clic" rischia di essere effimero come un "mi piace".
La storia dei referendum in Italia è interessante. Ricordo, in epoca ancora precedente alla Costituzione, il referendum del 1946 con cui si scelse fra Repubblica e Monarchia oppure il referendum consultivo del 1989 sulla nascita ufficiale dell'Unione Europea. Ci sono poi stati referendum su importanti riforme costituzionali con un voto favorevole nel 2001 sul regionalismo e due no, uno nel 2006 sulla riforma Berlusconi e l'altro nel 2016 sulla riforma Boschi-Renzi. Un altro voto a favore è venuto nel 2020 con la riduzione del numero dei parlamentari: una stupidaggine senza eguali non coordinata con leggi elettorali e regolamenti parlamentari, che tra l'altro taglierà ancora gli eletti nelle zone di montagna. Tra i referendum abrogativi ricordo il successo dei favorevoli al divorzio nel 1974 e dell'aborto nel 1981 per merito dei Radicali, grandi utilizzatori dello strumento referendario. Sono stato iscritto al Partito Radicale, imbattibile nel pretendere il rispetto dei diritti civili. Ma i radicali in certe occasioni davvero esagerarono con un mazzo di schede per votare con risultati altalenanti. In molti casi il Legislatore se ne fece un baffo, come quando vennero aboliti Ministeri, in una logica regionalista di cui non si tenne affatto conto e lo stesso valse per la privatizzazione della "Rai". Storicamente perdente fu un referendum che si è appena riacceso con la raccolta di firme in corso, quello sulla caccia. A fine anni Novanta, inizio e fine anni Duemila ci furono referendum sul sistema elettorale, anch'essi alla fine non influenzarono più di tanto la materia in mano alle Camere, così come la mancanza del quorum bocciò negli anni successivi - sintomo di stanchezza nell'abuso da referendum - questioni riguardanti la Giustizia, la fecondazione assistita e l'estrazione di idrocarburi in mare. Ora il referendum sembra rinascere dalle sue stesse ceneri e bisognerà vedere quale influenza avrà sulle Istituzioni e sulla Politica. Sia chiaro che anche in Valle c'è ha predicato forme di consultazione popolare, usando la comparazione con il modello svizzero, che non è oggettivamente importabile. Comparare i sistemi italiani con quelli elvetici vuol dire mischiare le mele con le pere. Per altro chi predicava il Direttorio, con rotazione rapida alla Presidenza, è infine e curiosamente approdato all'elezione diretta del presidente della Regione. Nel sistema valdostano i referendum regionale sono serviti per battaglie più ideologiche che altro, sull'ospedale, in materia elettorale e sui rifiuti. Nella larga maggioranza dei casi senza che si ottenesse il quorum per la loro validità. Per altro l'astensionismo è, nei referendum, arma legittima. Quel che è certo è che la democrazia rappresentativa, se non si troverà il mondo per accelerare le procedure e sveltire i tempi, rischia grosso nell'epoca in cui demagogia e populismo restano forti. Una maggior efficienza delle Assemblee elettive ed il coraggio di trattare argomenti difficili, in un'epoca in cui su temi difficili si sceglie l'ambiguità per non dispiacere a nessuno, sono la chiave di volta per evitare di essere travolti dall'idea, mai morta né a Roma né ad Aosta, dell'Uomo solo al comando. La dialettica democratica è sempre meglio, se non diventa ingovernabilità e tirare sempre per le lunghe decisioni non rinviabili.