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31 gen 2023

Scuola, formazione e la sfida culturale

di Luciano Caveri

Sono stato alla celebrazione di Don Giovanni Bosco nella scuola di Châtillon dei salesiani. Una struttura cresciuta nel secondo dopoguerra sino ai numeri imponenti di oggi, che in realtà era nata ab origine come orfanotrofio. Negli anni la Regione ha assecondato questo sviluppo, prima nel nome dell’istruzione tecnico-professionale e poi della formazione professionale. La logica, sin da subito manifestatasi nei confronti delle scuole cattoliche e di altri strutture private non confessionali (ad esempio il Liceo linguistico di Courmayeur), è sempre stata nel nostro ordinamento quella di una considerazione piena dell’istruzione paritaria senza barriere ideologiche, com’è invece avvenuto altrove. Il Don Bosco, con l’aiuto finanziario della Valle, ha seguito un filone fruttuoso nel solco scuola-lavoro, assicurando a tante generazioni di giovani una facilità nell’accesso professionale dopo la scuola e non è poco. Questa è stata una delle chiavi di successo: la nomea di una scuola “utile” è assolutamente fondamentale, che sia per un lavoro una volta finiti gli studi o come anticamera verso l’Università. Questo esempio virtuoso del Don Bosco, ma si potrebbe citare anche l’Institut Agricole di Aosta, va usato come punto di riferimento, ma dimostra una necessità su cui lavorare per minimizzare l’abbandono scolastico e anche – e talvolta è persino peggio – per contrastare la triste constatazione di come spesso i ragazzi si infilino, con qualche responsabilità delle famiglie, in un percorso scolastico senza un’esatta pesatura delle proprie ambizioni e persino delle proprie capacità. Ancora oggi, a poche settimane dall’inizio della scuola al primo anno delle Superiori, si assiste ad un valzer di spostamenti in altri istituti. Oppure peggio ancora si scopre – a me è capitato di constatarlo con alcuni studenti della Scuola Alberghiera – che c’è chi, già avanti con gli studi, non entrerà malgrado il percorso prescelto nel mondo turistico e questo è oggettivamente uno spreco di risorse in un settore dove c’è fame di dipendenti o di imprenditori. Una nuova legge regionale dovrà fissare dei paletti ormai indispensabili nel rapporto fra istruzione tecnico-professionale (competenza primaria da Statuto d’autonomia) e formazione professionale (ben finanziata dall’Unione europea), tenendo conto dell’obbligo scolastico sino ai 16 anni ancora sfilacciato dalla possibilità di poter lavorare davvero in parallelo agli studi per normative nazionali astruse. Resta, tuttavia, una mia speranza che riguarda tutti gli ordini dei percorsi più professionalizzanti a maggior o minor gradiente di cultura generale. Qualunque disciplina si scelga, comprese quelle più mirate verso un lavoro specifico, bisogna che ci sia sempre attenzione e spazio per certe materie umanistiche. Mi riferisco alle Lingue, alla Storia, alla Letteratura, alla Filosofia e a quella che un tempo si chiamava Educazione Civica, che a mio avviso comprende rudimenti del Diritto e dell’Economia. Non so bene dove mettere la Geografia, terribilmente vilipesa, ma fondamentale. Quel che conta dunque non è solo – nell’importanza anche delle varie discipline scientifiche – pensare giustamente al lavoro che verrà, ma anche alla formazione di un cittadino che abbia coscienza di sé stesso grazie a basi culturali solide, che lo nobilitano e lo rendono cosciente e partecipe. Dico sempre che se già questo è sempre stato importante va detto quanto lo diventa ancor di più con la crisi demografica che desertifica la nostra gioventù e dunque nessuno deve essere lasciato indietro e bisogna fare in modo che siano opportunamente assecondate vocazioni e ambizioni nella linea della propria natura e delle proprie caratteristiche.