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02 feb 2023

Dire quel che si pensa

di Luciano Caveri

L’anzianità di servizio in politica mi consente una certa serenità in più nell’esprimere il mio pensiero, quando lo ritengo utile. Chi mi segue da tempo lo sa: se devo esplicitare una posizione non mi tiro mai indietro. Trovo sia giusto dire quel che si pensa senza troppi giri di parole e senza peli sulla lingua, ma la franchezza diventa ancora più forte quando hai scoperto nel tempo - attraverso le esperienze vissute - quanto dire pane al pane e vino al vino sia una dote e non un difetto. Perciò se il passare degli anni ha un senso, questo vissuto serve a non dover scegliere la strada che aborro di giocare con le parole per non esporsi. Può essere che questa spontaneità - chiamiamola così - non sempre mi abbia portato bene. Osservo con curiosità, perciò, ma non condivido l’attitudine, di chi mantenga atteggiamenti prudenti o peggio silenti e si esprima poco sulle cose per non dispiacere a nessuno. Ma questo essere né carne né pesce per piacere a tutti e non avere guai per quel che si pensa non mi appartiene affatto. Somiglia a certo mimetismo degli animali che serve per evitare problemi con chi ti vuole fare del male e rischia - non appaia un paradosso - di sfociare nel camaleontismo e cioè cambiare le opinioni a seconda delle circostanze, come se nulla fosse. Sono equilibrismi rischiosi, perché prima o poi chi ondeggia viene beccato in fallo. Esiste questa espressione francese suggestiva, che è “langue de bois”, che qualcuno in italiano traduce - ma lo trovo artificioso - con “politichese”. In realtà questa potrebbe essere una definizione accettabile: “langage coupé de la réalité ; message intentionnellement truqué ; parole qui ne répond pas à la question posée ; manipulation par un message truqué ; discours vague et imprécis qui vise à travestir la réalité”. Su di una rubrica de Le Figaro che scava nelle espressioni, così se ne chiariscono le origini:: “Il apparaît cependant certain qu'elle ait bourgeonné dans les pays de l'Est, «notamment en Russie tsariste où on l'appelait ‘‘langue de chêne'' pour désigner le langage bureaucratique particulièrement pesant et rigide de l'administration, puis en Union soviétique», explique Gilles Guilleron dans son livre Langue de bois (First). Ma la questione è ancora più ramificata anche in altre lingue: “L'expression a étendu ses racines jusqu'en Pologne: nowo mowa, langue de bois, et son synonyme, jezyk propagandy, langage de propagande. On retrouve cette idée en Chine sous le terme «langue de plomb» et en Allemagne, «langue de béton». Des matériaux dans lesquels on retrouve «les mêmes pesanteurs et rigidités, caractéristiques de cette langue dont la finalité semble être d'extraire des mots tout signe de vitalité, d'invention» “. Un piattume insulso. È giusto rimarcare come, su impulso di un’attitudine americana, oggi - spesso per non dire come la di pensi realmente su di un certo tema - ci si nasconda nella logica del “politicamente corretto”, che tende a ingessare ogni discussione nel nome di principi intangibili. Modo di comportarsi - lo scrivo scherzosamente - che si sposa con il “democristianismo” (scusate il neologismo orrendo) e cioè quello stare “entre les deux” per non dispiacere a nessuno. Ponziopilatismo, si potrebbe aggiungere. Il che beninteso non ha nulla a che fare con l’intestardirsi quando su di un punto quando gli elementi che si acquisiscono dimostrano il contrario. Sarebbe la famosa “onestà intellettuale”, che è più o o l’atteggiamento di correttezza e lealtà che caratterizza chi riconosce, senza farsi condizionare da pregiudizi soggettivi o di parte, la consistenza reale di un fatto o di un’idea, un’opinione, un’affermazione altrui. Insomma: dico sempre quel che penso, ma questo non deve mai precludere, per partito preso, la discussione con chi non la pensa come me e farne, se il caso, tesoro. Ma alcuni - questo è davvero il peggio - non si esprimono anche in politica per poter tenere i piedi in più scarpe e l’esercizio resta ardito per chi lo fa e pure per le loro estremità.