Mi accorgo di scrivere molto adoperando il ”ma”. Sarà forse un mio modo di ragionare, perché cerco sempre in ogni cosa di vederne i diversi aspetti. Mi è capitato di dire che bisogna sempre, rispetto a qualunque problema, avere la capacità di guardarlo in modo plastico. Per capirci: bisognerebbe fare come avviene con una montagna iconica come il Cervino, di cui ognuno di noi ha una visione. Però se ci giri attorno tutto cambia a seconda del versante. Lo so perché ho avuto la fortuna di sorvolarlo in elicottero e di girarci attorno e l’ho fatto anche una volta con un aereo. Lo stesso vale - altra esperienza - non per una montagna singola, ma per un massiccio, che è una sinfonia di montagne, com’è ad esempio il Monte Rosa. Ecco: bisogna fare così con tutto, mai fermarsi ad una prima considerazione, ad un solo giudizio, ad un pensiero unico. Per questo, come un flash illuminante, ho letto sul Foglio l’inizio di un articolo di Giuliano Ferrara sul Sudan. Non parlerò di questo, ma della sua riflessione iniziale, che offre una prospettiva diversa e stimolante. Eccola: ”Il “ma” è una particella di coordinazione del discorso, però avversativa, e ha un grande potere logico, politico, civile, un potere esagerato, assoluto in certi casi, e un infido carisma. Una persona che conosco non poi così bene, cioè Io stesso, me stesso, è spesso oggetto di giudizi segnati fatalmente dal “ma”: è cattivo, ma intelligente. Questa persona si irrita e si turba e vede in quella particella una insidia, vorrebbe, se proprio bisogna mantenerla in vita, rovesciarne il senso: è scemo, ma è buono, meglio ancora: è scemo e buono. Così infatti Io stesso si sente e pretende di essere, senza se e senza ma. Questa però è psicoanalisi, per fatto personale. Grave è che la dittatura della Particella affligga l’informazione intorno non si dica alla verità, basta dire alla verisimiglianza, una certa conformità, tra i dubbi, all’indubbio dei fatti accertati, adaequatio rei et intellectus come diceva sor Tommaso d’aquino. Se leggete bene articoli e titoli di giornale, di servizi televisivi, di siti che influenzano la percezione immediata, nelle 24 ore, della realtà, vi accorgerete che un certo tipo di notizie, specie quelle riguardanti l’economia (anche la climatologia fa la sua brava parte), è sempre soggetto all’egemonia tremenda, apparentemente dialogica e invece irrecusabile, univoca, del “ma” ”. Il ”ma” siffatto non è indagatore o pluralista, perché è uno zampino negativo, se viene usato per tenere la barca piana e non fissare in modo certo un’opinione. Cambio scenario e plano su una questione tutta valdostana, senza che appaia un approccio balzano. Si tratta - ne parlo da anni a costo di diventare noioso e pure ripetitivo - del momento di ritorno ad una casa comune degli autonomisti. Reso necessario dalle circostanze e pure da certa pulizia nell’area autonomista per chi ha scelto di uscirne, facendo chiarezza sulle proprie posizioni e intenzioni. Anche in questo caso esiste il rischio del ”ma” in frasi tipo: ”Ottimo, torniamo insieme! Ma…”. Questa sembra una sorta di maledizione e pure di autocastrazione. Allora può essere usato meglio se si completa la frase con: ”Ma dobbiamo farlo in fretta e senza tentennamenti”. Ci credo e vorrei che dopo tanti anni di divisioni e incomprensioni - ciascuno con le propri ragioni su cui non bisogna tornare - ci si trovasse non solo per noi, ma (in questo caso rafforzativo!) per il ”dopo di noi”. Uno scrittore americano William Hodding Carter ha scritto: ”Ci sono solo due cose durature che possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali”.