Il confronto fra l’allure internazionale di Mario Draghi e l’approccio alla vaccinara con il resto del mondo di Giorgia Meloni imbarazza. Per chiunque fosse andato a Palazzo Chigi dopo l’ex big della BCE il confronto sarebbe comunque risultato difficile. Draghi ha di certo sbagliato molte cose e mi riferisco alla totale incomprensione del regionalismo, ben visibile dal montaggio sbagliato del PNRR e dalla scelta di snobbare la democrazia locale su tanti dossier, ma la sua capacità di dialogare senza complessi, grazie allo status conquistato sul campo, con i leader mondiali è stata indiscutibile. Fatto fuori interrompendo la Legislatura senza motivi plausibili, l’esperienza con Draghi è finita bruscamente e a furor di popolo è spuntata Meloni. La giovane donna dal passato di estrema destra di estrazione fascista (dirlo è una constatazione) è stata bravissima a sfruttare la situazione con un berlusconismo al tramonto e un salvinismo in crisi. Il centrosinistra tafazziano ci ha messo del suo e la Meloni è assurta al ruolo che ricopre legittimamente e lamentarsene sarebbe ridicolo, avendola spinta una forza elettorale. Ma questo non significa evitare di notare che, specie nell’Unione europea ma anche nella considerazione con altri Paesi del mondo, siamo scesi di graduatoria e questa è una facile constatazione, priva di qualunque compiacimento. Altri leader italiani del passato sono state figure non particolarmente considerate e dunque non è una novità, però oggi siamo molto giù. Forse una novità deriva da una qual certa aggressività che, benché neofita nei rapporti internazionali, la Meloni sta dimostrando. In particolare questo vale per il rapporto con la Francia, che sembrava partito bene nel primissimo incontro a Roma, dopo l’elezione della Meloni con buon faccia a faccia con Emmanuel Macron, poi degradatosi. Ultimo episodio la critica, inconsueta nei toni usati dal Presidente (Meloni gradisce il maschile) per la visita a Parigi (ma prima era stato a Londra e anche a Bruxelles) del Presidente ucraino Zelensky e contro il summit franco-tedesco con lo stesso Zalensky. Essere stata snobbata, dopo non aver avuto polso consentendo all’Ucraina di avere voce e soprattutto video al Festival di Sanremo, è bruciato sulla pelle della Meloni, che ha reagito malamente. Si direbbe: coda di paglia e isolamento politico. Ma esiste qualcosa di profondo in questa lite con Parigi, che ci deve preoccupare. Noi valdostani, con buona pace dei fessi che guardano anche da noi Oltralpe con spirito polemico, coi francesi abbiamo tutta la necessità di mantenere rapporti stretti e di grande comunanza. Non è solo la francofonia e neppure il confine comune, è il buonsenso tenendo conto della storia vissuta nel tempo coi territori vicini e delle molte cose - rese evidenti dai fondi comunitari - di lavori assieme in diversi settori. Lo dimostra la questione del traforo del Monte Bianco e chi polemizza coi francesi dimentica la necessità di accordi per disegnare un futuro del tunnel. Ma il quadro è enormemente più vasto: il Trattato del Quirinale, con la cooperazione rafforzata Italia-Francia, è per la Valle uno strumento preziosissimo in molti campi e bisogna essere miopi o ignoranti ad negare la portata storica per il nostro futuro. Ma la conditio sine qua non è che i rapporti bilaterali Italia-Francia non vengano avvelenati da logiche di un nazionalismo italiano da operetta, pernicioso se non ridicolo. Meloni capirà presto che solo con dei buoni rapporti con tutti (che non vuol dire non difendere le proprie posizioni) avrà un posto e non uno sgabellino con i Grandi del mondo e otterrà - se ne sarà capace - quel peso essenziale per avere un ruolo motore nell’Unione europea.