Gli anni di piombo (dall'omonimo film del 1981 diretto da Margarethe von Trotta, che trattava l'esperienza della Rote Armee Fraktion gruppo terroristico tedesco) hanno coinciso con il mio passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Lo stragismo di estrema destra e il terrorismo rosso insanguinarono l’Italia fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta con un bilancio terribile di morti e feriti. Avevo appena cominciato a fare il giornalista, prima in erba con - come culmine - la morte di Moro nel 1978 che commentai a Radio Saint-Vincent e poi, già contrattualizzato, pochi mesi dopo, con la cronaca degli attentati quasi quotidiani attraverso notiziari a Radio Reporter 93 di Torino. Ero giovane e, per quanto la pesantezza si vivesse con certe tragedie umane, il mondo restava pieno di speranze e anche della joie de vivre. Ma ora, quando ci ripenso, tornano vividi i ricordi di quella stagione assurda, violenta e a tratti feroce. Considero le follie di allora come un insieme, un grumo di dolore e assieme di insegnamenti su dove gli ideologismi possano portare, obnubilando le menti. Ho letto Carlo Bonini su Repubblica: “La decisione della Corte di Cassazione francese di confermare il diniego all'estradizione di otto uomini e due donne, protagonisti della stagione della lotta armata nel nostro Paese, e per questo condannati in via definitiva per gravissimi reati di matrice terroristica (omicidi nella maggior parte dei casi, come anche sequestri di persona) riapre, rendendola a questo punto non più rimarginabile, una ferita profonda. Che tale resterà nella storia dei rapporti tra Italia e Francia. Per l'intollerabile pregiudizio di cui questa decisione è figlia, per l'enormità giuridica del principio che afferma, per l'impunità che assicura ai colpevoli e il dolore in cui torna a precipitare la vita e la memoria delle vittime. Per l'ostacolo definitivo che pone nel chiudere per sempre la coda insanguinata del nostro Novecento”. L’applicazione della “dottrina Mitterand”, cavalcata da certa “gauche caviar”, ha nel tempo accecato certi maitres à penser d’Oltralpe, dando ad assassini la patente di vittime della Giustizia con status da perseguitati politici e i giudici francesi hanno seguito il solco. Ricorda Bonini: « Nella primavera del 2021, il Presidente francese Macron e il suo ministro di giustizia Eric Dupond-Moretti insieme al nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella erano riusciti a chiudere quella pagina del Novecento ripristinando il principio universale di ogni democrazia per cui i reati, accertati in via definitiva in un giusto processo, non debbano e non possano restare impuniti. Ecco perché, nel giugno di quell'anno, nelle case parigine di uomini e donne ormai anziani aveva bussato il fantasma della lotta armata, presentando un conto troppo a lungo rinviato e non certo perché figlio di un ritardo nell'accertamento della verità, ma solo della volontà dei colpevoli di sottrarsi alla pena nel luogo in cui questo gli era stato per lustri consentito”. Già, gli interessati sono stati condannati dalla Giustizia italiana con processi regolari, che avevano sancito le loro colpe e la gravità dlele loro azioni. ”Ebbene, la giustizia francese - osserva Bonini - spiega oggi al nostro Paese che a impedire il rientro in Italia di quei dieci ex militanti della lotta armata, responsabili della morte data ad innocenti senza alcun processo (che non fosse quello agghiacciante pronunciato dal "tribunale" di un fantomatico "popolo"), sarebbe il mancato rispetto degli articoli 6 e 8 della carta europea dei diritti fondamentali dell'uomo. Lì dove cioè si sancisce il diritto di ogni cittadino europeo ad avere un giusto processo e a veder rispettata la propria vita privata e familiare. Nell'affermazione sono evidenti due enormità. Ritenere, senza alcuna evidenza, che l'Italia abbia celebrato nei confronti di quei dieci ex terroristi processi contrari allo Stato di diritto. Ritenere che la richiesta di estradizione leda la raggiunta quiete della sfera privata e familiare di ex assassini perché non ricorrerebbero i requisiti per cui quella libertà può essere compressa. Come se l'impunità di condannati in via definitiva cercata, ottenuta, e difesa con strumenti politici, possa essere oggi un canone europeo di giustizia cui adeguare le decisioni del giudice penale”. Conclude il giornalista e concordo in pieno con vivo dispiacere per un evidente errore dei magistrati francesi: ”La verità - ed è terribile dirlo - è che nella decisione della giustizia francese ci sono tutto il pregiudizio, le tossine e il ciarpame ideologico che una generazione di expat è riuscita a depositare in trent'anni nella cultura profonda di quel Paese. Convincendola che la battaglia contro il terrorismo fu vinta non grazie alla tenuta democratica italiana, della sua società, delle sue istituzioni e dei loro servitori, dei suoi partiti e sindacati, dei suoi studenti e operai che rifiutarono la lusinga della "violenza rivoluzionaria", ma a colpi di un diritto penale addomesticato dall'emergenza. Uno sfregio alla Storia e a chi per difendere la democrazia diede la vita”.