Penso che si debba essere curiosi di ogni fenomeno che cambi in qualche modo la nostra società nel suo insieme e trasformi pure l’esistenza dei singoli. Soprattutto nel quadro di quella creatura proteiforme che è la famiglia, oggetto di ogni forma possibile di retorica, che sia in buona o cattiva fede. Il pensiero, semplificato all’osso, è il seguente: cresce il numero di quelli che si disinteressano, entrando in una dimensione prevalentemente familiare e scissa in larga misura da impegni pubblici o comunitari. È una scelta di vita che rischia di dimostrarsi irreversibile. Come se si staccasse una spina, orientandosi verso un una sfera più intima, che può creare una sorta di isolamento e di distacco dagli altri. Non parlo solo della dimensione politica, che sarebbe cosa abbastanza nota anche per colpa di chi in politica non riesce più a comunicare e soprattutto a scaldare i cuori e il distacco, facendo i conti con un fossato che si allarga pericolosamente nel tempo. Parlo, semmai, delle piccole e grandi cose, sapendo che al posta di chi decide di non esserci sono altri che lo fanno. Questo non avviene con una delega, ma per rinuncia di chi ne avrebbe diritto e dunque sopravviene una forzata sostituzione. Un abbandono che non si manifesta nel passato remoto dei calessi o delle piume d’oca, ma in un mondo che ci inonda con ogni mezzo possibile di informazioni, che coprono ogni spazio e offrono mille occasioni per capire. Eppure sono molti che decidono di chiudersi nel loro nido più o meno confortevole non per una disconnessione, ma per una sorta di catalessi intimista. Mi capita spesso di intavolare discussioni su temi che mi paiono di attualità o di una qualche importanza e vedo in alcuni guardi degli interlocutori spersi con la bocche cucite o balbettanti. Per una semplice ragione: la persona o le persone con cui interloquisci hanno scelto di vivere in una loro bolla e non sanno molto delle cose che li dovrebbero interessare. È come se avessero alzato una barriera chiusi nei loro fortini. Sarà una reazione di difesa, un grido di protesta, un “primum vivere, deinde philosophari”. In sostanza «prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia»: un richiamo a una maggiore concretezza e a una maggiore aderenza agli aspetti pratici della vita. Se non fosse che, alla fine, la distinzione non è oggettivamente così facile. Invece, io penso che la partecipazione, intesa nelle sue varie declinazioni, resti un obbligo, che risulta modulabile pur sempre a diversi livelli. Non si tratta di impartire lezioni di vita a nessuno, ma poi - questo penso sia il punto - è bene pertanto non lamentarsi delle conseguenze, perché i vuoti si riempiono in qualche modo e “malgré nous”. Per cui guardare avanti vuol dire, comunque, agire oggi (in latino si potrebbe usare ”hic et nunc”), affinché quanto vorremmo si realizzi non solo nell’enclave delle pareti domestiche. Capisco come ciascuno di noi sia già oberato di pensieri, preoccupazioni e pure, per fortuna, di speranze e dunque si rinunci da parte di alcuni ad occupare dimensioni collettive più vaste. Tuttavia altri si interesseranno a cose importanti e riempiranno gli spazi con evidente riverbero sulle vite dei rinunciatari, che non potranno certo lamentarsene.