Sempre difficile capire quale possa essere l’equilibrio in politica fra il vecchio e il nuovo. Una prima lettura riguarda la politica stessa e il fatto accertabile di come gli scenari di fronte ai quali la politica si trova mutino con un’impressionante rapidità. Ciò avviene con la sgradevole impressione di rincorrere gli eventi e i problemi, che trasformano la politica nella goffaggine di chi avanzi nella neve alta o cerchi di raggiungere il largo durante una mareggiata. Eppure è così. Ho visto a suo tempo cosa significhi il nuovo, diventando deputato a 28 anni nella X Legislatura (1987-1992). Ora vedo il vecchio, all’orizzonte dei 65 anni, impegnato come assessore nella XVI Legislatura regionale in Valle d’Aosta. Non ho mai ritenuta intelligente - e non solo perché Cicero pro domo sua - la celebre rottamazione di renziana memoria. E anche certo nuovismo fine a sé stesso rischia di essere una posizione stucchevole se intesa come una sterile guerra fra generazioni. Ha detto il Presidente Sergio Mattarella, grande vecchio che dimostra con i suoi graffi periodici come l’esperienza conti: “I giovani si allontanano e perdono fiducia perché la politica, spesso, si inaridisce. Perde il legame con i suoi fini oppure perde il coraggio di indicarli chiaramente. La politica smarrisce il suo senso se non è orientata a grandi obiettivi per la umanità, se non è orientata alla giustizia, alla pace, alla lotta contro le esclusioni e contro le diseguaglianze. La politica diventa poca cosa se non è sospinta dalla speranza di un mondo sempre migliore. Anzi, dal desiderio di realizzarlo. E di consegnarlo a chi verrà dopo, a chi è giovane, a chi deve ancora nascere. La politica, deve saper affrontare i problemi reali, ha bisogno di concretezza”. In questa nostra società che invecchia e molto rapidamente per via del crollo demografico bisogna giocare sullo scacchiere della politica con tutte le pedine e dare rappresentatività a quante più espressioni possibili. Chi oggi - com’è avvenuto in Francia - vorrebbe bloccare ogni ragionevole allungamento dei tempi del lavoro (e l’Italia lo ha fatto) sembra non cogliere la realtà di una possibilità di vita allungata quale quella di oggi e di domani. Questo ha come conseguenza - fatti salvi i lavori davvero usuranti - una logica possibilità di restare pienamente attivo nella società. Un processo che andrebbe meglio regolamentato negli anni che precedono la pensione e che dovrebbe aumentare la possibilità di operare quel passaggio di competenze e di consegne senza il quale avere accumulato conoscenze e esperienze rischierebbe di essere null’altro che un vuoto a perdere. Mi capita di pensarci e di riflettere come quanto fatto in politica serve per capire meccanismi, studiare mentalità, smontare e rimontare problemi, guardare al mondo e al proprio orto, conoscere cose e soprattutto persone, sentirsi spesso sotto esame, imparare punti di vista. Un bagaglio prezioso che si vorrebbe lasciare, anche solo in piccoli pezzi, a chi comincia, guardandosi attorno e sapendo che sarà lui stesso a crearsi la sua strada, ma chi ne ha già percorse tante può avere una sua utilità. Non è presunzione, perché so bene che il passato e la tradizione possono avere una loro utilità, pur dovendo fare i conti con tante cose che cambiano così in fretta da rendere molti aspetti d’improvviso obsoleti. Certe cose, come metodi, approcci, letture dell’animo umano, idee immarcescibili restano piantati come dolmen di pietra che segnano il cammino e tornano sempre utili come borse per gli attrezzi o come quei medicinali di base che teniamo in casa per un loro pronto uso.