Leggevo l’altro giorno del delitto di Roma con una 17enne uccisa a coltellate e poi trasportata dal suo assassino con un carrello del supermercato lungo le strade del quartiere. Mi ha colpito la frase di una conoscente della ragazza, che commentava di una amicizia finita in tragedia: “Erano felici, almeno sui social”. In questa frase piena di candore si legge una grande verità rispetto all’uso dei Social network, che raccontano storie personali artefatte rispetto alla vita quotidiana. Lo si vede su diversi piani. Quelli più alti sono i cosiddetti influencer che sulla loro esposizione mediatica per via digitale ci campano e il caso di scuola dell’abile coppia dei Ferragnez è un esempio fra i molti possibili. C’è di peggio e me ne accorgo spiando il famoso Tik Tok, Social dei giovanissimi, che seguono divi del genere che lasciano esterrefatti per la loro stupidità. Ben più pericolosi sono naturalmente coloro che lanciano i famosi challenge che spingono i coetanei alle sfide più stupide e spesso pericolose. Significativo che sugli influencer sia intervenuta di recente una legge francese, frutto di un accordo bipartisan. Il testo propone di definire legalmente gli influencer come "persone fisiche o giuridiche che, a pagamento, usano la loro notorietà per influenzare il loro pubblico e per promuovere beni e servizi online. La normativa vieta la promozione di determinate pratiche - come la chirurgia estetica o l’astensione dalle terapie, mentre vengono messe nero su bianco le norme per la promozione di diversi dispositivi medici. Le immagini promozionali - di cosmetici, ad esempio - devono indicare se sono state ritoccate o utilizzare un filtro che le renda più attraenti. Tra le attività vietate alle “star” dei social c’è anche, come dicevamo, la promozione di prodotti contenenti nicotina, le scommesse e il gioco d’azzardo. Le sanzioni per il mancato rispetto possono arrivare fino a due anni di reclusione e una multa di 300.000 euro. Se questo evidenzia certe esibizioni dei divi del settore, che verrebbe voglia di estendere a chi in politica straparla o sparge odio, esiste poi un mondo fatto da persone normali. Nella logica di certo voyeurismo, cui fa da contraltare l’esibizione delle proprie esistenze in un legame perverso di chi osserva e di chi si descrive, tutti noi vediamo persone che propongono la loro vita sui Social palesemente artefatta. Una specie di schizofrenia che altera spesso profondamente la realtà e propone una visione di sé modellata in modo tale da raccontare una specie di vita parallela. L’eccezionalità, la felicità, il glamour si sostituiscono alla normalità della vita. Specie per i giovani - lo vediamo noi genitori - cessa la distinzione tra online e offline, tra vita reale e vita sui diversi apparati. E siamo solo all’inizio, pensando alla realtà virtuale, che è uno straordinario strumento che potrà avere anch’esso - come capita con strumenti utilissimi di origine digitale - un suo risvoltò tossico. Intanto, quel che è certo è che presentare la migliore versione di sé stessa sui Social diventa una sorta di fissazione e si aggiunge in modo inquietante ai rischi palesi di dipendenza che vale per tutti, me compreso. Non a caso lo psichiatra Paolo Crepet ha osservato “I social in realtà dovrebbero chiamarsi a-social, visto che predicano assoluta solitudine e sembrano fatti apposta per “asocializzare". Questo riguarda i giovani, ma anche i meno giovani. I Boomers che parlano male dei Millennials sono i primi asociali”. Siamo in fondo tutti, chi più chi meno, sulla stessa barca ed è bene sapersi fermare quando necessario.