Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
28 set 2023

Il patto fra il Piano e il Monte

di Luciano Caveri

Una coppia di vecchi amici, Mariano Allocco e Annibale Salsa, hanno scritto un documento sulla montagna nelle settimane scorse e ho aspettato qualche tempo per ospitarli nel mio Blog. Non sto a lodarli per la vecchia militanza in favore della politica della montagna perché non ne hanno bisogno. Viviamo assieme, in scambi periodici, una qualche delusione sul dibattito su di un tema cruciale per i montanari, che non sempre vede riflessioni e proposte di qualità e rischia di affondare nella retorica convegnistica e in più parole che fatti. Ma mai perdiamo la speranza di un sussulto e vediamo ogni tanto la luce in fondo al tunnel. Questo l’inizio del contributo: ”Il dibattito sulla “questione montana” sta sempre più prendendo piede e coinvolge più voci in spirale positiva. Si tratta di un confronto che sta indirizzando energie, idee e proposte verso un obiettivo che, a nostro avviso, non è più procrastinabile: arrivare a un nuovo Patto tra Monte e Piano. Vi è un importante precedente nella storia delle popolazioni alpine rappresentato dal “Patto del Grũtli” (1 agosto 1291) con il quale i montanari dei Cantoni centrali (forestali) delle Alpi svizzere si federano tra loro avviando successivamente un processo di negoziazione con gli abitanti delle città del Piano. In tempi più recenti un documento molto importante sarà la “Carta di Chivasso” (19 dicembre 1943) che rilancia, in chiave federalista, un modello di governance per le regioni alpine”. L’idea del patto, che va sviluppata anche in termini giuridici e non solo ideali, viene poi approfondita nella parte più propriamente legata al passato in termini esemplari: “Parliamo di un Patto nuovo perché la storia ci dà testimonianza di un Patto antico in base al quale le Alpi, prima luogo di passaggio, divennero luogo abitato stabilmente allorquando si riconobbero “libertà e buone vianze” a coloro che si facevano montanari e su questo Patto genti di buona parte d’Europa si fecero allora montanare. Partiamo da una storia lontana per proporre un contributo al dibattito, sicuramente non semplice, al fine di arrivare a un quesito dirimente a cui proprio le “parti” debbono dare una risposta condivisa. Concessioni di franchigie, immunità, libertà si ritrovano trasversalmente alle Alpi su entrambi i versanti, sia quello italiano sia quello esterno transalpino fino al XVIII secolo allorquando i confini trasformati in frontiere salirono sullo spartiacque e le Alpi, che fino ad allora erano state cerniera e raccordo, divennero barriera divisoria. Nei secoli XII-XIII-XIV alcuni signori territoriali (laici ed ecclesiastici), particolarmente interessati nel mettere a frutto le terre incolte di montagna, avevano deciso di sottoscrivere contratti di insediamento con famiglie coloniche disposte a lasciare il Piano per vivere sulle alte terre in “libertà e buone vianze”, privilegi che in pianura non erano concessi. Fu allora che l’Ecumene, i territori in cui l’uomo vive stabilmente, raggiunse le quote più alte. Sulle Alpi i nuovi abitanti si fecero montanari e convissero senza problemi con genti diverse che altrove si trovavano in conflitto. L’immanenza della geografia dei luoghi e del clima prevalsero su tutto e anche in ciò, dalla storia del vissuto alpino, si potrebbero trarre insegnamenti utilissimi anche per i nostri tempi. La prima grave crisi dell’economia alpina arrivò con l’industrializzazione della metà dell’800 quando il vapore prima e l’elettricità poi fecero scendere a valle fabbri, falegnami e tutto il settore secondario. Contemporaneamente si ebbe un incremento demografico, iniziò l’emigrazione permanente ma il colpo finale arrivò nel secondo dopoguerra allorché migliaia di imprenditori agricoli chiusero le loro aziende per scendere al Piano dove serviva forza lavoro nell’industria. Il bilancio economico di questo esodo rimane tutto da fare. Fu allora che cominciò la discesa dal limite superiore dell’Ecumene. Discesa che continua inesorabile e che lascia dietro di sé un bosco che avanza inesorabile ovunque, una marea verde che tutto ingloba, una colata che tutto travolge e cancella l’orma dell’uomo”. Dalla ricostruzione storica al presente: “Non scriviamo di queste vicende passate per una semplice rivisitazione storica ma perché siamo convinti che, per parlare di “questione alpina”, bisogna ripensare - adattandole al presente e al futuro - certe buone pratiche avviate con lungimiranza in tempi lontani. Se per Ecumene intendiamo i territori in cui l’uomo può vivere tutto l’anno, le alte Valli possono ancora essere strategiche per la vita dell’uomo senza farle ritornare territori dominati dalla “wilderness”, luoghi in cui la natura selvaggia (soprattutto quella dei grandi carnivori che rischiano di allontanare definitivamente gli alpigiani dalle malghe) è padrona assoluta. Questo, in sintesi, è il tema che proponiamo di affrontare per discutere della “questione alpina” tenendo conto che le scelte fatte negli ultimi quarant’anni sono state improntate all’abbandono del Monte. A livello istituzionale si è introdotto il metodo maggioritario smantellando l’approccio comunitario che è stata la colonna portante del governo delle comunità alpine. La sostituzione, in molte Regioni, delle Comunità Montane con le Unioni Montane - veri mostriciattoli organizzativi che invece avrebbero potuto e dovuto evolvere verso istituzioni a elezione diretta e di autogoverno dei territori e l’istituzione di un sindaco dal ruolo quasi monocratico - hanno prodotto uno scollamento profondo tra comunità e istituzioni. La politica dagli anni ’90 ha poi guardato verso il Monte con sguardo ecumenico senza significativi distinguo da parte dei partiti che hanno governato, scelta che non ha portato grandi risultati se siamo giunti alla situazione attuale. Per farla breve: la strategia da adottare verso il Monte deve avere la centralità sull’ambiente naturale o sull’uomo che quell’ambiente vive? Questa è la domanda fondamentale a cui rispondere nel siglare un nuovo Patto tra il Piano e il Monte. La prima porta le alte Valli a diventare una grande area inselvatichita, che è la deriva attuale, luogo in cui la natura selvaggia la fa da padrona. La seconda ha l’obiettivo di renderle abitabili e vivibili, luoghi in cui una famiglia possa lavorare e restare con i propri figli. A nostro avviso una scelta si impone al più presto, una decisione di Parte che non ammette “ecumenismo”, un atteggiamento che le Parti politiche hanno da almeno quattro decenni adottato nei confronti del Monte. Le Parti devono esprimere scelte coerenti con le diverse impostazioni programmatiche generali come avviene per tutto quanto riguarda il governo dello Stato. Che il Governo dello Stato, delle Regioni, degli altri Enti di gestione competa alla destra o alla sinistra le politiche montane non cambiano. In modo sommesso rileviamo che l’ecumenismo è l’atteggiamento adottato in Occidente nei confronti delle Colonie da sottomettere e sfruttare, ma il Monte colonia non è e non vuole diventare. La questione montana si deve nuovamente mettere all’ordine del giorno della Politica nazionale. Ecco perché torniamo a proporre un Patto tra Piano e Monte. Un patto che necessita di creatività, passione e concretezza, forse difficile da definire ma l’importante è cominciare a parlarne, a mettere le carte in tavola senza barare. Questo è l’obiettivo di un Patto tra Pari che si deve scrivere e sottoscrivere. Non servono pannicelli caldi e rattoppi, serve una scelta di campo. Si deve tornare a confermare agli uomini della montagna le franchigie, le immunità, le libertà e le “buone vianze”: quelle decisioni che fecero delle Alpi una delle regioni più popolate e scolarizzate d’ Europa. Una proposta che lanciamo dalle Valli e per le Valli alpines.”. Pensieri profondi su cui riflettere.