Quest’anno il mio Calendario dell’Avvento, che scandisce il conto alla rovescia sino a Natale, è una sobria scatola di biscotti inglesi, che ricordano nella loro forma e nei colori gli elementi vari – diciamo l’iconografia – del Natale. L’anno scorso erano, invece, lattine di birra di vario genere, certo meno evocative del famoso spirito del Natale, anche se naturalmente le bevevo con giusta partecipazione prefestiva. La novità di queste ore è la fine di un ciclo, purtroppo ormai in modo definitivo. Adulti i miei figli più grandi, che per ora non sembrano intenzionati a rendermi nonno per riavviare a pieno la macchina natalizia, la lettera a Babbo Natale era rimasta solo più nelle mani del piccolo di famiglia, che sarà tredicenne domani. L’anno scorso l’aveva ancora fatta, ma di sicuro già sapeva la verità, ma si è goduto il viaggio in Lapponia nel paese di Babbo Natale, recitando in modo impeccabile la parte del bambino stupito, prendendo i suoi genitori per fessi. D’altra parte, invecchiando, penso che bisognerebbe davvero credere a Babbo Natale, visto che farlo non fa male a nessuno e in fondo scalda il cuore. C’è una poesia di Dino Buzzati, che non parla di Babbo Natale, ma di Gesù Bambino, a cui io stesso da piccolo chiedevo idoni, prima che facesse irruzione il suo alter ego, che è poi laico per modo di dire, visto che le radici affondano di sicuro in San Nicola. “E se invece venisse davvero? / Se la preghiera, la letterina, il desiderio / espresso così, più che altro per gioco / venisse preso sul serio? / Se il regno della fiaba e del mistero / si avverasse? Se accanto al fuoco / al mattino si trovassero i doni / la bambola il revolver il treno / il micio l'orsacchiotto il leone / che nessuno di voi ha comperati? / Se la vostra bella sicurezza / nella scienza e nella dea ragione / andasse a carte quarantotto? / Con imperdonabile leggerezza / forse troppo ci siamo fidati. / E se sul serio venisse? / Silenzio! O Gesù Bambino / per favore cammina piano / nell'attraversare il salotto. / Guai se tu svegli i ragazzi, / che disastro sarebbe per noi / così colti così intelligenti / brevettati miscredenti / noi che ci crediamo chissà cosa / coi nostri atomi coi nostri razzi. / Fa' piano, Bambino, se puoi” Pensieri che hanno una tenerezza che sa di buono e di un passato senza troppi orpelli. Ho sempre detto che il Natale, anche per la circostanza di essere il mio compleanno, ha avuto una logica per me double face e cioè mi pare come quelle bolle di sapone dell’infanzia, che ti affascinano spargendosi nell’aria e poi spariscono una ad una. Una gioia intensa ma effimera. Quel che resta sono i momenti conviviali che si trascinano sino all’anno nuovo e naturalmente i regali, per quanto non abbiano nulla a che fare con lo stupore di quando si era bambini e scartare quei doni la mattina di Natale creava emozioni impagabili. In questo senso, non si può negare di come molto sia diverso e sia del tutto normale un pezzo di struggente nostalgia per quei momenti – e quando li vivi da bambino non ne hai consapevolezza – destinati a essere solo più un ricordo. Sui regali non perdo occasione per ricordarne il significato. "Regalo" viene dal verbo "regalàre" (secolo XV). E' un prestito all'italiano da altre lingue romanze: dallo spagnolo "regalar, lusingare, far doni", in origine "festeggiare, far accoglienza" e dal francese "régaler - offrire un festino". Va detto, invece, come in italiano sia usato in modo diverso e lo vedremo il termine "dóno" (1278), nel senso appunto di "regalo, omaggio", dal latino "dōnu(m)", dalla stessa radice di "dăre", nel senso di "ciò che è dato". "Régal" in francese,nel senso di "dono", è sparito, mentre appunto resta vivo il verbo "régaler", nel significato generale di "offrir quelque chose à quelqu'un, agir de façon à lui plaire". In francese si è affermato "cadeau", che sarebbe: "présent, objet que l'on offre à quelqu'un sans rien attendre en retour ou dans l'intention de lui être agréable". L'origine della parola è assai curiosa: "Le mot "cadeau" vient du provençal "capdel", qui vient lui-même du latin "caput": la "tête", et par extension le "chef". Au XVIIème siècle, le mot "cadeau" désignait une fête galante offerte à une dame et, par extension, il a pris son sens actuel: ce que l'on offre à quelqu'un pour lui faire plaisir. Ce mot "cadeau" vient du latin populaire "capitellus" dérivé de "caput, tête"; il a désigné la lettre capitale jusqu'au XVIème siècle, puis des paroles superflues enjolivant un discours, puis un divertissement offert à une dame et enfin le présent. C'est à la fin du XVIIIème siècle que ce terme a pris le sens qu'il a aujourd'hui". Complicatissimo, ma fa capire la profondità delle parole.