Per noi cattolici, qualunque sia il grado di come si vive la nostra fede o con la religione solo come impronta culturale, questi giorni non sono banali.
Se un extraterrestre piombasse in mezzo a noi e dovesse comprendere il perché del simbolo fisico della croce e del gesto con cui mimiamo sul nostro corpo la stessa croce sarebbe colpito dal suo significato e della vicenda che riguarda questa figura così complessa del Messia, figura cui si affidano diverse religioni e non solo il cristianesimo.
Ha scritto sulla croce Natalia Ginsburg: ”Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo”.
Le fa eco Simone Weil: “«Datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo». Questo punto d’appoggio è la croce. Non ce ne possono esser altri. Bisogna che esso si trovi all’intersezione del mondo e di ciò che non è il mondo. La croce è questa intersezione”.
Sofferenza e gioia nella logica in realtà complessa della Resurrezione e si passa, come spesso capita nella vita in poco tempo, dalla disperazione alla gioia. Ricordo la cupezza, spenta ogni luce in segno di lutto, della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi il venerdì Santo e poi la domenica di Pasqua il tripudio di una Messa che era un vero e proprio spettacolo.
Ha scritto Vittorio Messori: “Unica tra le religioni, il cristianesimo non annuncia solo la salvezza dell’anima, la sopravvivenza dello «spirito», bensì pure la risurrezione della carne. Anch’essa è destinata – seppur misteriosamente trasfigurata – a vivere nell’eternità: è anche per mostrare questo che Gesù risorto, il modello e anticipo della risurrezione di ogni uomo, chiede da mangiare, siede di nuovo a mensa con i discepoli”.
Lo riassume con semplicità Papa Francesco: “La risurrezione di Gesù non è il finale lieto di una bella favola, non è l’happy end di un film; ma è l’intervento di Dio Padre e là dove si infrange la speranza umana”.
L’occasione pasquale serve anche per parlare della Pace e mai come quest’anno, con il drammatico scenario mondiale, l’occasione appare propizia. Su ANSA Massimo Sebastiani si occupa di analizzare una parola a settimana e mesi fa lo ha fatto su “pace” e ne traggo alcuni pensieri. Curioso che si affermi la logica della contrapposizione, così come la appena evocata coppia morte e vita.
Così si legge: “La parola nasce da una radice indoeuropea, che è la grande famiglia linguistica e culturale dalla quale deriviamo e che, tra l’altro, esaltava la guerra: il termine è pak e significa ‘pattuire’, ‘fissare’ dunque contiene al tempo stesso l’idea di un confronto e di una relazione (quindi un’idea dinamica della pace, lontana dal modo di dire ‘pace dei sensi’ o ‘lasciatemi in pace’) e quella più rigida e statica di qualcosa che è stato fissato, legato (legare è infatti un altro significato di quella radice). Sembra quasi che non ci possa essere pace senza guerra e viceversa o che, comunque, sia presupposta una tensione costante tra i due
poli e che l’uno non sia individuabile senza l’altro”. E ancora con grande senso dell’attualità, pensando ai pacifisti violenti nelle piazze e ai pacifinti di varia natura, spesso pagati a gettone: “Norberto Bobbio, intellettuale italiano tra i più eminenti del ‘900, giurista e politologo, critico verso quello che chiamava pacifismo astratto e favorevole, da realista, al pacifismo giuridico o istituzionale, parlava della storia dell’uomo come di un labirinto, un groviglio di tensioni da districare ogni volta e continuamente. Quando invochiamo la pace, quando gridiamo pace, dobbiamo dunque sapere che si tratta di qualcosa di dinamico, che è movimento e non quiete: la pace non è silenzio (anche se pax in latino significava anche questo). Per questo, forse, neanche la Chiesa la considera una condizione normale, come spiegano due domenicani, Timothy Radcliffe e Lukazs Popko, nel loro libro ‘Domande di Dio, domande a Dio’. E se nell’introduzione Papa Francesco torna sulla necessità di farsi sempre domande perché solo chi si è adagiato non fa domande e la verità non la si può possedere e scrive che Dio è una virgola, cioè una pausa e un’apertura, forse dobbiamo immaginare che anche la pace sia qualcosa del genere”.
Triste ma realistica l’idea di guerre che si alternano così fitte nel corso del cammino dell’umanità, cosicché hanno reso rari i momenti di pace.