Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
05 giu 2024

Guardando lo Zerbion

di Luciano Caveri

Scrivere di chi è morto è sempre difficile e lo è specie quando a morire sono dei giovani. Ha detto Plutarco e sorge il suo pensiero dalla saggezza della Grecia antica: ”La morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto”.

Ieri sera dal balcone di casa mia guardavo la vetta dello Zerbion, che - vivendo a Saint-Vincent - è la mia montagna domestica e lo era già in passato nelle mie vacanze ad Antagnod: due versanti diversi della stessa montagna. Una vetta che cambia a seconda da dove la si osservi e la si salga.

Zerbion potrebbe essere un toponimo (lo scrive Pier-Giorgio Crétier nel libro che racconta la storia della statua della Madonna issata sulla cima a 2772 metri), che deriva dal francoprovenzale “Lo Dzerbe”, sinonimo di un terreno montano inadatto al pascolo bovino. Da lassù si gode di una vista unica sul resto delle montagne valdostane. Guardandola questa montagna, ho pensato ai due giovani morti cadendo dal crinale del monte in queste ore: lui, Jean-Daniel, campione e maestro di sci, pronto a diventare guida alpina; lei, Elisa, maestra di scuola e maestra di sci.

Li vedi nelle immagini pubblicate con la triste notizie di cronaca e sono sorridenti e abbracciati. In una di queste foto, gioco del destino, si vede proprio lo Zerbion alle loro spalle. Amavano la montagna. E viene in mente il Papa alpinista Pio XI: ”“In poche parti del creato si rivela tanto splendidamente quanto nell’alta montagna, la potenza, la maestà, la bellezza di Dio”. O un alpinista come Giusto Gervasutti: ”“Nelle vibranti e libere corse sulle rocce tormentate, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento, con l’azzurro, nella dolcezza un po’ stanca dei delicati tramonti, ritrovavo la serenità e la tranquillità”. O ancora un altro grande alpinista come Walter Bonatti: ”Che quelle rocce innalzantisi in forma di mirabile architettura, quei canaloni ghiacciati salenti incontro al cielo, quel cielo ora azzurro profondo dove l’anima sembra dissolversi e fondersi con l’infinito, ora solcato da nuvole tempestose che pesano sullo spirito come una cappa di piombo, sempre lo stesso ma mutevolmente vario, suscitano in noi delle sensazioni che non si dimenticano più”.

Che bel segno di amore, di comunanza di passioni, è stato per i due innamorati quel salire assieme in montagna. Che bello essere una coppia con interessi che si intrecciavano con una vita davanti che li avrebbe di certo uniti e l’idea che tutto si sia spezzato in una tragedia è un destino crudele. Ha scritto Cesare Pavese: ”Non è che accadono a ciascuno cose secondo un destino, ma le cose accadute ciascuno le interpreta, se ne ha la forza, disponendole secondo un senso – vale a dire, un destino”. Ne scrivo per un impulso improvviso, dopo essere stato alla presentazione del piccolo e prezioso libro che la straordinaria ricercatrice Adriana Meynet ha dedicato ad una persona che diede sé stessa e donò la sua generosità alla comunità di Sarre, Rosina Roccavilla (1893-1961).

Si racconta in modo laterale un pezzettino della storia della sua famiglia, imparentata con la mia attraverso la mia nonna, Clémentine Roux (1881-1945) moglie di mio nonno René Caveri (1867-1948). La presentazione è servita per capire la storia di un paese e i cambiamenti avvenuti a cavallo dei due secoli passati e per vedere sul libro un albero genealogico della mia faiglia. Ciò ha restituito con grande chiarezza proprio le bizzarrie dei destini di fratelli e sorelle di mio papà (erano in sette e non conto il primogenito morto da piccolissimo di febbre spagnola). In loro, come nel caso del dramma in montagna di cui ho parlato, la leva del destino ha agito senza una bussola con una capricciosità, che risulta ingiusta. in cui è difficile intravvedere un disegno, se non per chi è sorretto dalla speranza della Fede.

Ha scritto Papa Francesco: ”Siamo piccoli e indifesi davanti al mistero della morte. Però, che grazia se in quel momento custodiamo nel cuore la fiammella della fede!”. Ho annotato tempo fa, ma senza scrivere chi ne fosse stato l’autore, un pensiero consolatorio anche per chi é laico: ”Di fronte alla morte, il laico - pur non disponendo di certezze metafisiche o religiose - coltiva la serenità che gli deriva dalla coscienza (kantiana) dell’osservanza della legge morale”.

Resta - alla fine di questi pensieri confusi - il fatto terrificante per qualunque genitore della perdita di un figlio, che zittisce nella loro vacuità formule di circostanza per un lutto incolmabile.