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03 set 2024

Cose dette e non dette

di Luciano Caveri

Sono meglio le cose dette o quelle non dette? Il tema in sé è stimolante. E’ vero, infatti, che capita di avere qualche rimpianto, specie rispetto alle persone care, di non aver detto cose belle al momento giusto, quando si poteva fare, a chi se le meritava. Invece, le parole ci sono rimaste in bocca, inespresse.

Considerando situazioni del genere in certi casi come davvero occasioni perdute, spesso irrecuperabili per la triste ragione che quelle stesse persone – parenti o amici – oggi non si sono più oppure i rapporti si sono così degradati da non avere più occasione giusta per tornarci sopra.

Ma le cose non dette spesso riguardano altro e sono situazioni nelle quali tutti prima o poi ci siamo trovati. E, per scelta strategica o per pavidità o per chissà quale ragione, ci siamo trattenuti per poi pentircene, perché sarebbe stato giusto e opportuno farlo.

Ma nelle occasioni, pure quelle perdute, esiste una sorta di vacuità. Osservava Pier Vittorio Tondelli: “Le occasioni della vita sono infinite e le loro armonie si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo”.

Con il passare del tempo la franchezza, quindi le cose dette, sta diventando sempre più parte del mio carattere e penso sia qualche cosa di ereditato, impresso chissà come nel mio DNA. Spesso ho pensato che fosse stato sbagliato farlo e invece sempre di più credo che esprimersi sia benefico per sé stessi e per le persone con cui si interloquisce.

Bisognerebbe certo riuscire a farlo senza eccedere.

Ammoniva lo scrittore svizzero ottocentesco Henri-Frédéric Amiel e si nota nelle parole l’impronta calvinista: “Quando il bisogno di dire la verità porta a trascurare i riguardi, quando, preoccupati per le cose, si dimenticano le persone, allora il desiderio di far trionfare l’opinione che pare giusta può avere l’aspetto del desiderio di trionfare. Ciò è un errore. La franchezza non dev'essere spinta fino alla crudezza; la verità non deve solo vincere, deve conquistare. Questo elemento di persuasione, d’insinuazione, di dolcezza fa difetto ad alcuni caratteri generosi, i quali, per odio verso i vezzi, per orrore verso la diplomazia, l’abilità, la servilità, si rifugiano piuttosto addirittura nella durezza. Per timore di lusingare, brutalizzano; per timore di fare delle avances, di parere circonvenire o cattivarsi le grazie, scuotono le opinioni e indispongono gli amor propri. Temperare la sincerità con la cortesia e la fermezza con il riserbo, unire all'indipendenza il rispe tto e alla vivacità il tatto è un’arte che devono apprendere”.

E’ questo una sorta di breviario laico, cui sarebbe bene attenersi e confesso che non sempre, quando sono irritato, riesco a restare fisso in questa carreggiata senza uscirne. Si tratta comunque e quasi sempre di una sorta di botto eclatante, in cui colpisco dove so di colpire, che finisce tuttavia in un battibaleno. Talvolta me ne pento per poi in genere autoassolvermi e in altre occasioni questo sbottare finisce per essere terapeutico e svelare un pensiero che davvero non doveva essere trattenuto.

In politica forse bisognerebbe essere meno franchi e usare la sottile arte della dissimulazione e ho visto all’opera dei veri maestri del genere. Questa presunta abilità non ha certo loro portato fortuna sul medio e lungo termine.