Gaza. Qualcuno l’altro giorno mi ha detto: perché non ne parli?
Ne parlo, ma non ne ho scritto, perché il tema mi tocca nel profondo.
Sono per formazione culturale e convinzione politica da sempre un ammiratore del popolo ebraico.
Ho studiato la storia di Israele, Paese nato dalle ceneri - e mi riferisco proprio alle ceneri - del terribile e sconvolgente fenomeno dei campi di sterminio nazisti.
Ho seguito parimenti la tragedia palestinese, usata nel mondo arabo con logiche di strumentalizzazione, tanto da consentire l’ascesa di quei mostri di Hamas, che governano Gaza e affliggono le popolazioni con gli strumenti liberticidi di cui sono capaci e che sono l’antitesi dei diritti civili in cui mi riconosco.
Chi in Occidente agita la bandiera di questi terroristi dovrebbe essere costretto a studiare le ragioni profonde del ribrezzo che ogni persona ragionevole deve provare per assassini nel nome della religione e della teocrazia, che stride con il buonsenso e con il Diritto.
Ciò detto, ho sempre avuto difficoltà a trovare le parole verso le azioni in corso con una escalation delle truppe israeliane che ricorda la celebre frase di epoca romana Carthago delenda est («Cartagine deve essere distrutta»), pronunciata da Marco Porcio Catone. La sua distruzione avvenne davvero al termine della Terza Guerra Punica nel 146 a.C.
Oggi scrivo, attraverso pensieri di Stefano Cappellini di Repubblica, sulla base di una arrabbiatura: una mia amica che mi ha mandato l’elenco dei prodotti israeliani da boicottare, quanto ritengo essere antisemitismo.
Scrive il giornalista: “Criticare le azioni criminali perpetrate a Gaza da Benjamin Netanyahu e dal suo governo di fondamentalisti non è antisemitismo. Significa giudicare il premier israeliano per quel che dice e quel che fa. Proprio come battezzare Putin un tiranno sanguinario non significa essere antirussi, né si rende antiamericano chi disprezza il trumpismo e le sue oscenità. Ciò che Israele sta infliggendo alla popolazione civile palestinese è un orrore disumano. Non c’è giustificazione possibile. Il massacro del 7 ottobre ha messo Israele, non per la prima volta nella storia, in condizione di dover reagire. Tuttavia, come ha detto David Grossman nella bella intervista rilasciata ieri a Repubblica, non c’è più alcun legame tra la necessaria risposta ai tagliagole e stupratori di Hamas e la ritorsione in atto nella Striscia. La legittima risposta al terrorismo non può essere la pulizia etnica”.
Sottoscrivo e mi spiace che non si vedano oggi alternative a questi orrori.
Ma, aggiunge Cappellini: “Criticare Netanyahu, abbiamo detto, non è antisemitismo. L’omicidio di Washington, invece, cos’è? Riempire di insulti Liliana Segre, che ormai non può prendere parola senza che centinaia di dementi le diano della nazista, cos’è? Setacciare l’agenda per scoprire dove parla un ebreo e mobilitarsi per impedirgli di intervenire, cos’è? Chiedere al cliente israeliano di un ristorante di prendere posizione su Gaza come condizione per servirgli la pasta, cos’è? È antisemitismo. Risposta facile ma, purtroppo, non abbastanza condivisa. Preoccupa un fatto più di tutti: chi a buona ragione contesta l’uso strumentale e censorio dell’accusa di antisemitismo finisce spesso per negarne l’esistenza anche dove questo si manifesta, eccome. Al Salone del Libro di Torino, pochi giorni fa, un pugno di manifestanti si è palesato alla presentazione di un libro di un autore e ha lanciato l’orribile slogan “via i sionisti dal Salone”. A Milano un commerciante ha ritenuto di dover apporre un cartello all’ingresso del suo esercizio per spiegare che “israeliani e sionisti” non sono benvenuti. Era già successo una volta che cartelli vietassero l’accesso ai locali pubblici agli ebrei. Lo facevano i nazisti e i fascisti.
Ripetere l’esperienza nascondendosi dietro la bandiera palestinese non rende la pratica meno odiosa e razzista. Insistere a sostenere che si tratta solo di azioni motivate dall’operato di Israele è una mistificazione, in parte consapevole. Lo testimonia involontariamente l’uso sempre più frequente, in molte sortite antisemite, della parola “sionista” al posto di ebreo. Come se questa ipocrita sostituzione lessicale dovesse assolvere al compito di scacciare ombre di razzismo. Qui però non siamo alle ombre, siamo sotto una cappa solida di pregiudizio e odio. Il sionismo è il movimento politico nato alla fine dell’Ottocento con l’obiettivo di dare una patria agli ebrei. A parte l’ipocrisia lessicale, resterebbe da fare i conti con il senso politico dell’accusa, se le parole hanno ancora un senso: chi usa sionista come una lettera scarlatta sta di fatto sostenendo che Israele non dovrebbe esistere. Il che è in effetti ciò che pensano molti, sebbene non tutti abbiano il coraggio di ammetterlo pubblicamente o lo neghino persino dopo aver urlato nelle manifestazioni “Palestine will be free, from the river to the sea”, cioè dal fiume al mare”.
Chiudo qui la lunga citazione, mantenendo la speranza, forse illusoria, che un equilibrio infine si possa trovare in questa zona martoriata del mondo.