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21 nov 2025

Sgarbi: la montagna attraverso l’arte

di Luciano Caveri

Difficile - specie oggi che appare depresso e deperito, quasi smarrito - trovare una definizione di Vittorio Sgarbi.

Potrebbe essere epicureo, bon vivant, intellettuale dell’eccesso. Lui, con la sua incontinenza verbale e pronto alla rissa televisiva, si è autodefinito “Il matto del paese” o, senza falsa modestia, “Il più grande storico dell’arte vivente”. Segno distintivo, dai suoi esordi nel teatro tv di Maurizio Costanzo, il suo “Capra, capra, capra”, sdoganato pure da una sentenza della Cassazione.

Hanno detto di lui. Giorgia Meloni: “Un genio scomodo ma indispensabile”; Matteo Renzi: “Sgarbi è come il prezzemolo: sta dappertutto”; Marco Travaglio: “Il recordman italiano del cumulo di incarichi pubblici”; Roberto Saviano: “Un istrione che usa l’arte per fare politica”; Umberto Eco: “Un erudito autentico che però si diverte a fare il pagliaccio”.

Avendolo conosciuto, mi riconosco in quest’ultima definizione. In sintesi, in Italia quando si dice “Sgarbi” si pensa immediatamente a tre cose: arte, urla e poltrone. E lui ne va fierissimo.

Deputato in sei legislature, è stato al Governo, sindaco di diversi città e paesi, consigliere regionale in Lombardia e deputato regionale in Sicilia.

In barba al divieto di cumuli, è stato pluripresidente di Musei e Fondazioni in un bulimia dimostrata anche nella carriera politica iniziata negli anni '70 (con l'Unione Monarchica Italiana) e segnata da passaggi in vari partiti (dal PCI al PSI, Liberali, Forza Italia, fino a "Rinascimento").

Vittorio Sgarbi è un autore estremamente prolifico: ha pubblicato oltre 100 libri tra saggi d’arte, cataloghi di mostre, pamphlet politici, raccolte di articoli e testi più personali. Ora, qui davanti a me, il suo ultimo lavoro, che c’entra i miei interessi sulla montagna, con un excursus straordinario attraverso la pittura.

Opera mirabile, che lo ha visto tornare in TV con tono dimesso per presentare proprio questo libro non guardando più la telecamera con segno di sfida, ma con uno sguardo basso, girando le pagine del suo nuovo lavoro.

Si tratta de “Il cielo più vicino. La montagna nell'arte”, edito da La nave di Teseo, la casa editrice della sorella Elisabetta. Sgarbi ci conduce in un viaggio - ovviamente di gusto personale - attraverso la storia dell’arte per raccontare la natura e la montagna interpretata dai più grandi artisti, dal Trecento ad oggi. Dal primo pittore a raffigurarla, Giotto, il più umano di tutti, alle Dolomiti nei quadri di Mantegna, dalla purezza dei paesaggi di Masolino agli scorci aspri di Leonardo, dove le rocce incorniciano le vergini senza tempo, agli impalpabili acquerelli alpini di Dürer in viaggio da Venezia verso la Germania. A fianco dei maestri celebrati, Bellini, Giorgione, Tiziano, Turner (che fu in Valle d’Aosta e lo scrive), Friedrich. Sgarbi ricorda capolavori di artisti meno noti, cresciuti in provincia, come Ubaldo Oppi, Afro Basaldella, Tullio Garbari. Un viaggio che attraversa le Alpi e le altre vette d’Italia dipinte nel realismo di Courbet e nel simbolismo di Segantini, nei colori di Van Gogh, nell’espressionismo di Munch e nei fantasmi di Böklin.

Importante per noi valdostani il capitoletto dedicato a Italo Mus. Ecco un passaggio: “Nessun pittore del Novecento è stato quanto lui fedele alla propria identità culturale e territoriale. Italo Mus, dalla Valle d'Aosta. Ovvero, del legno nell'interno della casa. Protezione, tradizione, famiglia. È quell'odore, di legno di noce, che, più di ogni altro pittore, Mus descrive in piccole tele che hanno la forza di Sironi e l'intimi-tà di de Pisis. Ritirato in Valle d'Aosta, va restituito alla pittura italiana del Novecento come un integro pittore dell'uomo, del suo lavoro, dei suoi valori. Spesso negli interni vediamo contadini seduti al tavolo, di spalle, in domestica e non intellettualistica visione della solitudine, anche della malinconia, di chi è riparato, ma anche fuori, dal mondo. In questi interni, nelle lunghe serate d'inverno arrivano i rintocchi delle campane di Georges Rouault e Constant Permeke, attribuendo a Mus una dimensione internazionale”.

Mi vien da sorridere, pensando a mio papà veterinario, che curava gratis i cani di Mus e non prese i quadri che il grande pittore gli voleva regalare!

Infine, tornando al tema generale delle montagne, Sgarbi dice: "Quando osserviamo le montagne, sentiamo qualcosa che non riguarda i nostri occhi, il nostro sguardo, ma qualcosa che riguarda la nostra anima".

Aggiunge più avanti: “Nulla è più vicino all'eterno della montagna e allo stesso tempo niente permette di intendere meglio i limiti dell'uomo, la sua fragilità. L'uomo e la montagna hanno una storia, che l'arte ha raccontato nella sua autonomia espressiva”.

Un viaggio interessante, che dimostra come l’istrionico Sgarbi possa esibire la sua vasta cultura, al di là della spavalderia e degli eccessi che ne hanno forse graffiato l’immagine.