blog di luciano

Auguri ai blue jeans

I jeans sono stati e sono ancora, pur con stili differenti, un grande classico dell’abbigliamento, oggi facilitato dall’utilizzo in tante occasione di un abbigliamento casual, cioè più informale di quanto avvenisse in passato.
Il grande stilista Yves Saint Laurent diceva: ”Vorrei aver inventato i blue jeans: la cosa più spettacolare, più pratica, più comoda e disinvolta. Hanno espressione, modestia, sex appeal, semplicità − tutto ciò che desidero per i miei vestiti”.
Il semiologo Ugo Volli così conferma: “Infinite sono le possibilità di indossare i jeans e altrettanti numerosi i modi di farlo, di dar senso a questo pantalone che nel corso del tempo è diventato il “significante puro” del guardaroba disponibile ad assumersi i più diversi significati. Lavoro e tempo libero, gioventù e virilità, seduzione e comodità trasandata, rivoluzione e rimpianto dei bei tempi del West, americanismo e anti, eleganza e povertà”.
Perché ne scrivo? In queste ore è un compleanno. Ho letto su questo Luca Josi su Oggi: “Perché 150 anni fa, il 20 maggio del 1873, nel pieno della caccia all’oro californiana, un sarto di origini lettoni, Jacob Davis, convinse un mercante di abbigliamento di origini bavaresi, Levi Strauss, padrone di una fabbrica d’indumenti ben avviata (la Levi Strauss & Co), a brevettare a San Francisco il primo modello di jeans: cinque tasche in tessuto denim, rinforzato con rivetti in rame e decorato con la classica salpa posteriore; numero di registro 139.121! Nome “XX””.
Josi, genovese, ricorda poco prima l’origine dei blue jeans “o i “Blu di Genova” come dovrebbero chiamarsi in epoca di sovranismo lessicale”.
Più avanti approfondisce con poche righe illuminanti: “Da dove nasce il mito di questo tessuto, forse il più commercializzato del pianeta? Da una Repubblica marinara, Genova che, già nel pieno Medioevo, utilizzava il progenitore di quel tessuto, color indaco, per proteggere sotto l’armatura i suoi balestrieri (i tiratori di balestra, una sorta di evoluzione tecnica dell’arco). Città di commercio e mercato, centrale di importazione di cotone e di esportazione di fustagni, tele e orditi di pregio, Genova proteggeva i suoi preziosi carichi tessili imballandoli con un tessuto, un fustagno color blu resistente anche all’acqua, che fece riconoscere quei prodotti provenienti dal capoluogo ligure come “Jeane” (ovvero, la vista di quel blu faceva etichettare l’intera merce in arrivo come genovese). E più o meno questa dovrebbe essere l’origine di quel nome legato alla manifattura di una tela che poi prenderà strade diverse a seconda dei luoghi della sua lavorazione; i genovesi delegheranno al Piemonte canavese la produzione del loro fustagno, mentre a Nîmes si darà vita al “Blue de Nîmes” “.
Josi scava infine nella storia: ”Due secoli dopo, nel 1860, ritroveremo il jeans addosso alle uniformi de “I Mille” di Garibaldi impegnati a combattere per l’Unità d’Italia. E con un certo gioco della storia, 150 anni dopo, sarà pronto ad accogliere in una sua tasca un’altra Unità, quella del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, per la pubblicità di Oliviero Toscani (che citava forse se medesimo da una precedente, celeberrima immagine di una campagna del 1970: «Jeans Jesus: chi mi ama mi segua»). In realtà, il jeans arriverà sui giornali già nel 1935 con la prima inserzione su Vogue acquistata dalla Levi’s.
Quella tela diventerà il minimo comune denominatore di un’epoca. Lo indosserà nel 1943 la modella Mary Doyle Keefe nello storico ritratto di Norman Rockell per la propaganda bellica. E dall’immaginario dell’eroe dei due mondi si passerà a quello globale di James Dean, Jack Kerouac e della Beat Generation per arrivare alla Hollywood di Elvis Presley e Marlon Brando. Nel 1971 sarà protagonista della copertina di Sticky Fingers dei Rolling Stones disegnata da Andy Warhol, mentre in Italia lo incontreremo nella letteratura di Pasolini e poi di Moravia. Nel ‘68 eccola divisa militante della rivoluzione giovanile e qualche lustro dopo indossata da un Gianni Agnelli versione casual o motivo di ritardo nella consegna del primo incarico di governo a Bettino Craxi (il presidente della Repubblica Sandro Pertini, nel 1979, lo mandò a cambiarsi perché il giovane leader si era presentato al Quirinale, precipitatosi di ritorno da un viaggio all’estero, in giacca e jeans); saranno i calzoni per il ranch di Ronald Reagan e tenuta informale per Obama e Putin”
Insomma: un pezzo di Storia ha indossato i blue jeans!

Certi ambientalisti…

Vorrei umilmente riassumere la posizione in materia energetica della parte più estremista del mondo ambientalista, premettendo che ormai il patrimonio del rispetto del pianeta è appannaggio di qualunque essere umano pensante e chi ne agita troppo la bandiera rischia se ossessivo di sortire l’effetto opposto.
Elenchiamo la frontiera di chi vive oltre la logica. Il no al nucleare è ormai dato per assodato e il fatto che altri - tipo la Francia - lo stiano rilanciando sarebbe la dimostrazione che sono fessi. Idem, ad esempio per i Paesi scandinavi, che ottengono energia dai termovalizzatori: un tabù e dunque meglio che i romani mandino i loro rifiuti in Olanda in impianti analoghi. L’eolico, per carità, con quelle pale che turbano il paesaggio, peccato che io ne abbia visti in tutta Europa senza grossi problemi. Gas nazionale dell’Adriatico? Non se ne parla! Meglio lo sfruttino i croati dirimpettai. L’idroelettrico è un salto ad ostacoli: niente bacini nuovi e minimo vitale sempre più elevato nei fiumi, perciò se si può meglio evitare. Se fosse il legno con le sue diverse filiere energetiche? Inquina! Non oso pensare a come verrà un giorno giudicato il vettore idrogeno, che ovviamente dovrà essere idrogeno verde, ma come lo produci con le rinnovabili nel mirino?
Intanto naturalmente si vanta come necessario l’addio al petrolio e al carbone e tutto dovrà essere elettrico, ma l’elettricità come la si farà in questo intrico di no o peggio ancora dei “sì, ma…”, che suona anch’esso come una negazione?
La sostenibilità - che ormai spunta come il prezzemolo - assieme al compagno di merende “sviluppo”, che da solo va rigettato, è il nuovo mantra e siamo tutti sull’attenti. Anche se nella declinazione esatta ci sono problemi concreti da rompicapo.
Intanto c’è chi imbratta i monumenti, blocca il traffico pendolare, odia i jet privati e manifesta con grande ingegno in difesa dell’Ambiente, considerando l’umanità una schifezza.
Esistono animalisti che tra un cucciolo d’uomo e quello di un cane non hanno dubbi: meglio il bau bau, disegnando una Natura in cui l’unica presenza ingombrante è l’uomo e chissà che non si predichi un salutare suicidio di massa. C’è lo saremmo cercati!
Estremizzo? Può essere, tuttavia credo che la misura sia colma, così come un tam tam assillante di modelli astrusi di un ambientalismo pauperistico che non si capisce bene che cosa predichi. Certamente i NO a qualunque cosa con racconti suggestivi di un mondo delle favole, che non mette nessuna allegria, ma una forma profonda di letargia.
Manca il cilicio, la penitenza e la scelta di privazioni a completare un quadro desolante e depressivo. Un mondo grigio e militarizzato che farebbe tremare Georges Orwell, peggiore di dittature conclamate con regole di vita persino contrarie al buonsenso e alla mitezza.
Davvero questo è il futuro che guarda al passato remoto e intende negare progresso e benessere? Auguri di cuore a chi si intruppa e milita.
Nessuno pensa ad un mondo sprecone e irresponsabile, perché devono esistere coscienza e buonsenso a beneficio nostro e di chi verrà. Ma gli estremismi sono sempre condannabili perché puzzano di voglia di totalitarismo. Bisogna diffidarne grandemente.
So che come baby boomer posso essere considerato colpevole di tutto e porto in più in me le colpe di mio papà e di mio nonno e giù per li rami dell’albero genealogico. Capisco, confesso e chiedo perdono , ma resto convinto che l’umanità abbia complessivamente migliorato la sua condizione, senza mai dimenticare errori e brutture di cui siamo stati protagonisti. Ma il ritorno al passato remoto non lo voglio.

Il ruggito del leone

Dieci anni fa lasciai l’Union Valdôtaine per l’impossibilità manifesta all’epoca di poter conciliare la mia idea di democrazia con la gestione di allora del Mouvement. Una scelta dolorosa, ma che fu ineluttabile, per chi come me aveva passato anni di militanza e di successi elettorali con l’UV e aveva una storia familiare importante sin dalla sua fondazione con mio zio Séverin leader per tanto tempo e vero erede dell’azione di Émile Chanoux.
E proprio ieri, data della morte di Chanoux nel 1944, il leone - simbolo della Valle d’Aosta e dell’Union - è tornato a ruggire e i Movimenti politici come MOUV’-VdaUNIE, cui oggi appartengo, hanno espresso a Saint-Vincent la volontà, condividila con l’UV, di un cammino congiunto che porti a breve ad una réunification sotto la bandiera unionista.
Il processo prevede un cammino rapido che passi attraverso regole che consentano un pluralismo e consenta di vivere assieme nel nome di ideali federalisti e per costruire una compagine forte, laboratorio di progetti per il futuro della Valle d’Aosta senza mai dimenticarne le radici identitarie alla base dell’Autonomia speciale.
Un’identità che certo è destinata a cambiare nel tempo, ma senza mai spezzarne la storia millenaria. Un’Autonomia che deve essere rafforzata attraverso una modernizzazione dello Statuto Speciale, contrastando quelle spinte centraliste che a Roma si evidenziano con chiarezza.
Ecco il documento finale, di cui ho avuto l’onore di scrivere la prima bozza: ”Soixante-quinze ans après la naissance du Statut, la Vallée d’Aoste conserve intactes les raisons de l’Autonomie spéciale : une autonomie qui ne doit pas seulement être défendue, mais qui doit être renforcée dans le sillon d’une histoire centenaire et de son enracinement contemporain.
Cette action peut être soutenue uniquement par la présence cruciale d’une force politique soudée et unitaire, capable de dépasser intelligemment les divisions du passé à travers des règles partagées, qui permettent la coexistence civile dans une maison commune.
Le monde qui se transforme touche également notre destin en Vallée d’Aoste. Il est de plus en plus nécessaire de rallumer la conscience politique du peuple valdôtain : une condition forte pour conter et décider, en soutenant nos raisons dans toute institution.
Les défis à relever sont importants.
Le développement technologique change nos vies à travers le web, l’intelligence artificielle, les biotechnologies. Les changements de notre société nous proposent un vieillissement croissant de la population, avec une baisse démographique et la nécessité de gérer avec attention les flux migratoires.
Les changements climatiques ont des conséquences évidentes sur les territoires et sur l’activité humaine. La culture valdôtaine se modifie également : il est nécessaire de sauvegarder les langues historiques et les traditions, atouts importants pour maintenir notre identité
en tant que peuple alpin.
L’économie doit se développer et se différencier en respectant un développement durable, parce que c’est à travers notre richesse que nous créons les ressources nécessaires pour garantir la qualité de la vie et le niveau des services publics.
Le défi politique est dans la cohésion sociale, dont l’aire autonomiste doit être garante : son rôle est de protagoniste, avec des choix qui passent à travers les différents niveaux de participation démocratique et qui s’incarnent dans notre spécial système juridique.
Ce chemin trouve sa perspective dans l’intégration européenne et dans le renforcement de nos liens avec les voisins valaisans et savoyards.
C’est le moment de se relier avec les autre Autonomies spéciales et avec les minorités linguistiques de toute l’Europe, pour proposer le Fédéralisme en tant qu’antidote contre tout totalitarisme.
C’est pour cela que nous nous rencontrons ici, à cette date symbolique, unis dans la recherche d’un parcours commun pour notre Vallée et pour son avenir”.
Frutto della discussione di ieri, ricca e approfondita e senza voci dissenzienti, questa aggiunta importante: ”Les intervenants à la rencontre ont partagé le désir de démarrer un parcours commun pour vérifier la possibilité de recomposer l’aire autonomiste. Un parcours qui ne signifie pas effacer les années récentes, où la passion politique a porté à une fragmentation qui a profondément marqué les émotions et les actions de plusieurs Valdôtains : mais le moment est venu pour relancer une forte entente entre des personnes qui partagent des idéaux liés à l’autogouvernement, à l’importance du territoire, à la responsabilité du futur de la Vallée d’Aoste.
Les différents mouvements créeront des occasions de se retrouver, à l’intérieur de chaque groupe et en tant que collectif, pour discuter des résultats de la rencontre. Profitant de l’absence de périodes électorales, les mouvements se réuniront pour partager des règles pour reconstituer un dialogue commun, où les différences soient le potentiel pour permettre à la Vallée d’Aoste d’aborder son avenir en tant que protagoniste.
Les intervenants invitent enfin les Mouvements à concrétiser, au plus tôt, ce parcours”.
La Stampa ha giustamente titolato: ”Il ruggito del leone”.

Il ruolo della montagna

Se dovessi segnalare un elemento che ritengo essere stato utile nel mio lavoro politico, laddove ho avuto la fortuna di avere un ruolo, direi senza troppa esitazione e in sintesi “la politica per la montagna” (che figura anche oggi nelle mie deleghe assessorili).
In tanti anni ho visto il tema sotto diversi profili e penso che, essendo materia cangiante nel tempo, si debba continuare a scavare nella soluzione dei problemi vari e nelle opportunità utili per i territori montani e le popolazioni che li abitano.
Ancora di recente mi è capitato di discuterne via Web, nel quadro di una serie di approfondimenti sul tema, con Aldo Bonomi, sociologo che fu anche nella squadra allargata dell’Anno Internazionale delle Montagne 2002, di cui fui Presidente.
Ora sul Sole4Ore Aldo scrive un articolo con quel suo linguaggio talvolta iniziatico ma espressivo:
“Finalmente ha piovuto nelle terre alte del grande nord assetato dall'inverno senza neve sulle montagne. Basterà? Faceva temere la rottura simbiotica tra "città ricca e campagna florida", ci ha fatto alzare lo sguardo ansiosi, temendo che «la sete della montagna è la fame della pianura». Abbiamo dovuto alzare lo sguardo dal Po in secca verso le metromontagne della piattaforma alpina. La crisi ecologica cambia geografie, spazi di posizione e l'antico adagio montanaro «la sete della pianura è la fame della montagna».
In un libro edito dalla Donzelli nel 2021 a curo si usava questo neologismo “metromontagna” così esplicitato: “Metromontagna è una parola nuova, che racchiude in sé un proposito radicale: riunire sotto un unico sguardo ciò che naturaliter ci appare diviso, decostruendo l’alterità tra città e montagna. Questo drastico cambiamento del punto di vista appare necessario e illuminante, in una fase come quella che stiamo attraversando e per un territorio come quello del nostro paese, caratterizzati entrambi da una crisi della centralità urbana e da un ripensamento dei rapporti tra centri e periferie”.
Ma torniamo a Bonomi e alla siccità: “Raccontava lo stato di progressiva dipendenza dalle città industriali disposte a corona intorno ai pittoreschi monti del sublime romantico (con tanto di orsi e di lupi), che attiravano dalle città frotte di benestanti turisti in cerca di avventura nella verticalità e di riposo nella natura e nel paesaggio. Non a caso le Alpi sono state avanguardia del turismo, mettendo assieme prossimità ed esotico, sino a diventare il primo grande playground europeo e poi meta dell'industria della neve. L'industrializzazione alpina avveniva nel '900 su due registri: quella della grande ingegneria (e del grande capitale pubblico e privato) di infrastrutturazione delle grandi vie di attraversamento, delle centrali idroelettriche e della connessa industria pesante a valle, degli impianti di risalita e dei grandi resort alpini, e quella della delocalizzazione di prossimità in risalita a salmone dalle pedemontane in cerca di manodopera a basso costo, cui si sono affiancati non solo sul versante italiano, numerosi cluster distrettuali di qualità. Luxottica docet. Queste trasformazioni accelerate hanno destrutturato in profondità le identità alpine dell'autosufficienza forzata, forgiata nei secoli, favorendo l'insorgenza diffusa di quelle forme di resistenza culturale e politica poi diventate mainstream europeo nel primo ventennio del secolo. Poi la pandemia con la sua geografia del male con il pieno urbano contaminante e il vuoto alpino come salvezza come lo era dalla Tubercolosi nella Montagna incantata di Thomas Mann. Siamo all'oggi delle Alpi: piattaforma territoriale in divenire, sospesa tra il "non più" e il "non ancora". Questione di rilievo europeo nel suo essere contaminazione e attraversamento e migrazioni tra Europa del burro ed Europa dell'olio. La macroregione alpina "larga" delle terre alte, delle valli, delle pedemontane e delle città disegna un urbano-regionale con un Pil pari a quello tedesco, intorno alla quale ci siamo interrogati nei vari contributi contenuti ne Les Alpes productives (Pug/Uga Editions 2022) curato da Roberto Sega e Manfred Perlik. Il libro pone interrogativi sul destino della piattaforma nel rapporto problematico tra città industrial-terziarie (Milano, Torino, Zurigo, Lione, Monaco, etc.), tessuto industriale diffuso (con un 20% di occupati direttamente nella manifattura, rispetto a una media europea poco superiore al 10%) e terre medie e alte del turismo, della multi-residenzialità, dell'agricoltura di qualità e della gestione delle risorse naturali”.
Libro naturalmente che ho acquistato al volo, essendo uno dei pionieri nel lavorare su Eusalp, la macroregione alpina, che tanto ha bisogno della politica e non solo della tecnocraziaz
La situazione in divenire viene osservata nelle conclusioni dallo stesso Bonomi: “È un rimescolamento caleidoscopico di vuoti e di pieni urbani in cui si intrecciano la piattaforma turistica, quella manifatturiera, quella logistica, quella ambientale e quella sociale della tenuta demografica. Come evidenziato anche da Pierre Veltz nella sua postfazione, lo spazio di rappresentazione delle Alpi non può limitarsi all'ambire a essere un'oasi del benessere, del turismo sostenibile (dopo la crisi dell'industria della neve) con un po' di agricoltura di qualità innestata sulla valorizzazione del paesaggio e un po' di servizi ecosistemici. Se si punta esclusivamente su questi aspetti "endogeni" si rimarrà determinati e governati dai fattori "esogeni", ovvero dagli aggregati urbano-regionali nodi di rete dell'economia della conoscenza globale a base urbana che continueranno a esercitare uno sguardo periferico quanto magnetico sulle montagne, sulle persone che vi abitano e sulle risorse economiche e sociali che le caratterizzano. Per governare i processi socioeconomici che le investono le Alpi sono chiamate a costruire nuove relazioni, a fare "innovazione sociale" che permettano di cogliere le opportunità del loro stare in mezzo. Che non è solo questione di attrattività da reshoring, ma è anche e soprattutto questione della metamorfosi tra green economy e green society del grande e articolato patrimonio industriale. Ed è nel rapporto tra servitizzazione, digitalizzazione, ibridazione di saperi e conoscenze, che si ridefinisce il rapporto con gli hub metropolitani in una posizione non subalterna ma di reciproca valorizzazione. Facendoci metromontagne per la circolazione/distribuzione/connessione di saperi e conoscenze legate alla conversione ecologica, alla gestione delle risorse naturali, ai modelli di fruizione turistica e di ripopolamento delle terre alte, capaci di andare oltre la dicotomia centro/periferia e avendo consapevolezza che è ai margini che si determina il destino del centro. Sono tempi centrali per la risorsa acqua perché, come ci ricorda un grande poeta, «L'acqua la insegna la sete» ed è utile rileggere La montagna incantata e il duellare tra l'illuminista Settembrini e il nichilista Naphta ricoverati in sanatorio a Davos, nel cuore delle Alpi dove oggi annualmente si ritrovano i padroni del mondo, interrogandosi sul destino del pianeta tra tecnocene e antropocene”.
Bisogna leggere con attenzione e trasformando il lessico complesso nei pensieri che ci sono associati, ma è tutta materia di confronto e riflessione.

La democrazia non esportabile

Comincio scherzosamente, prima di diventare serio. Nel linguaggio della mia infanzia affioravano espressioni ormai scomparse del tipo ma che “storie d’Egitto” o “ma va in Egitto”. Leggo che la Crusca, dopo diverse ipotesi sulla loro origine, sintetizza che deriverebbe dalla “concezione biblica dell’Egitto come paese della non salvezza, della perdizione, dell’inferno”.
Devo dire che dell’Egitto conoscevo le località sul Mar Rosso e le coste mediterranee, ma non il cuore dell’antica civiltà egizia. Per cui mi sono imbarcato - e il verbo è giusto, essendo una buona parte una crociera sul Nilo - in un viaggio nei luoghi turistico-culturali per eccellenza in un viaggio a tappe che arricchisce in profondità.
Ne ho già in parte accennato, cogliendo l’occasione per parlare qualche giorno fa della “bomba demografica” dell’Africa che sarà il Continente che registrerà un’espansione incredibile.
Ma un altro ragionamento con l’Egitto ancora negli occhi deriva anche da certi altri miei viaggi, che sono stati occasione importante per
entrare in contatto - non pretendo di più rispetto a chi li conosce bene - con alcune realtà di quelli che sono stati chiamati con un velo di ipocrisia “Paesi in via di sviluppo”. Più concretamente si usavano un tempo le definizioni Terzo o Quarto mondo in una classifica declinante.
Ogni volta che li visito in diverse parti del mondo mi ricordo del Professor Giuseppe Morosini, con cui diedi due esami all’Università: "Storia dell’Africa" e "Sociologia dei Paesi in via di sviluppo". Era un personaggio singolare: valdostano e internazionalista. Ritrovava da noi molte delle sue radici, ma assieme c’era la scelta militante, specie in Angola, dove aveva applicato sul campo quella sua visione marxista che era stata la sua stella polare. Quando lo conobbi e simpatizzai - essendo per altro zio del noto artista valdostano Bobo Pernettaz, amico di sempre - mi sembrava molto ormai cauto e misurato in alcuni suoi giudizi, forse per gli insegnamenti di una vita in parte avventurosa. E fra gli insegnamenti emergeva la delusione del post colonialismo, quando gli afflati di libertà troppo spesso finivano per sortire regimi con dittatori più o meno feroci e élites ingorde e incapaci. Intendiamoci: nessun rimpianto per un passato con popoli interi sotto il giogo di noi occidentali, ma l’angoscia per il fallimento di democrazie abortite.
E c’è di più: un impasto terribile di mancanza di democrazia, povertà, ignoranza, malattie, degrado sociale, disastro economico, violazione dei diritti civili, che - lo ricordo incidentalmente - spingono perseguitati e disperati verso la sola luce in fondo al tunnel: l’Occidente. E questo avviene senza regole chiare e la gestione dei flussi dei disperati (non tutti meritevoli di asilo e di accoglienza) avviene attraverso sistemi malavitosi con schiavisti del nuovo millennio.
L’Egitto è una dittatura e non ha mai conosciuto, come tanti altri Paesi, una vera democrazia. Per cui è legittimo interrogarsi se e come la democrazia, già fallace in Occidente, possa essere davvero esportata laddove lo Stato di diritto o meglio dei diritti non esiste. Abbiamo peccato di presunzione nel pensare che una certa modellistica di democrazia sarebbe stata facile da esportare? In che cosa abbiamo fallito se il diritto internazionale stenta accora ad affermarsi e anzi la democrazia sembra spegnersi in molti luoghi?
Sono temi tutt’altro che banali per le implicazioni pesanti sull’umanità e sulla civile convivenza con un mondo sempre più complesso. E certo, malgrado tutto, non bisogna arrendersi.

I soliti noti

È normale che ci siano nella vita alti e bassi di umore, a seconda delle circostanze. Ma ci sono occasioni in cui l’umore diventa nero ed è giusto sfogarsi e scrivere come la si pensa, come scelta salutare.
Confesso che, pur considerandomi persona tollerante, incomincio ad averne abbastanza di chi considera noi valdostani - e in generale i montanari - come dei sottosviluppati con l’anello al naso e la sveglia al collo.
Al grido ”le montagne non sono vostre” fanno comunella fra di loro certi soggetti esterni e talvolta persino estranei alla vita vera in montagna, con certi personaggi locali che diventano animatori e altoparlanti delle proteste, come metodo di lotta politica manicheo. Con la furbizia di ammantarlo però da civismo e da mobilitazione della multiforme “società civile”, paravento e giustificazione ormai per tutto quanto.
Ciò avviene in spregio ai meccanismi democratici che non sono la lotta continua e talvolta si manifesta con modi di stampo antagonista. A furia di farsi più grandi di quanto sono in realtà rischieranno prima o
poi di scoppiare, come la famosa rana delle favoletta, che si gonfiava a dismisura per assomigliare al bue.
Ma intanto i danni i soliti noti li fanno, usando raffiche di polemiche e persino chiedendo confronti, pur ben sapendo che non è il dialogo che cercano, ma il redditizio muro contro muro al grido di “no pasaran”.
Restano in fondo degli abili manipolatori delle posizioni altrui e fingono di essere chissà quanti con gruppuscoli capitanati sempre dai professionisti di antica militanza che non mollano mai, come fecero i militari giapponesi rimasti nella giungla per anni dopo la chiusura della Seconda guerra mondiale.
Esiste disprezzo e dileggio per chi è considerato nemico e finisce nel mirino dell’oltranzismo e della purezza degli ideali contrapposta sempre a chissà quale oscuro affarismo o quale triste cecità. Preoccupa in particolare chi vorrebbe imporre scelte dall’esterno sul nostro territorio con atteggiamenti dal sapore colonialista. Noi “indigeni”avremmo, in questa visione, bisogno di chi ci indichi saggiamente le strade giuste, perché noi non saremmo in grado di decidere in scienza e coscienza. Così qualunque cosa si decida da parte nostra sullo sviluppo futuro scatta la protesta con la logica di demonizzazione attraverso la vecchia tattica del discredito dell’avversario, scegliendo argomenti che finiscono per essere autentiche ossessioni.
Credo che la misura sia colma e l’unico modo per reagire sia una reazione corale dei valdostani con un rilancio forte delle ragioni politiche della nostra Autonomia. Altrimenti a decidere saranno altri dal di fuori o chi dall’interno propone modelli confusi di società “dal sol dell’avvenire”. Per dirla alla Nanni Moretti.

La mitologia dei filorussi

Ringrazio i molti che si sono congratulati per la scelta, che rivendico nelle mie responsabilità in Valle d’Aosta sulla delega degli Affari europei, di adoperare una larga parte della recente manifestazione per la Festa dell’Europa all’aggressione russa contro l’Ucraina. La visita di Vladimir Zelensky in queste ora a Roma conferma una giusta linea del Governo italiano e anche l’impegno, al limitare dell’irrealistico, di Papa Francesco in favore di una regolamentazione pacifica del conflitto.
Mi ha rivoltato in questo anno davvero in profondità la scoperta della presenza in Italia di troppi filorussi di diversi colori che spacciano menzogne colossali. I peggiori sono quelli che lo fanno in maniera furbesca, anche in Consiglio Valle, con la solita storia valida per ciascuna questione politica. Del genere: “Sono con l’Ucraina e il popolo ucraino, ma…”. E di seguito si inanellano una o più bugie sulla guerra in corso e sulle sue origini.
Ecco perché mi piace oggi, anche se il testo è lungo, a beneficio di chi vuole replicare, pubblicare una sorta di vademecum per reagire alla mitologia dei filorussi, frutto di un testo della Rappresentanza della Commissione europea in Italia:
“Falso mito: è inevitabile che la Russia esca vincitrice dalla guerra. O la Russia vince la guerra o sarà la terza guerra mondiale. Il sostegno militare dell'Occidente all'Ucraina provoca un'escalation della situazione e prolunga le sofferenze. L'unica via verso la pace è la demilitarizzazione dell'Ucraina.
La notevole resilienza dell'Ucraina, la sua determinazione e il suo indomito spirito combattivo hanno dimostrato una volta di più che le prospettive del Cremlino nella guerra di aggressione contro lasciano presagire tutto tranne una vittoria. Il mondo ha boicottato la Russia chiedendo un'immediata cessazione dell'offensiva in Ucraina e il ritiro incondizionato delle truppe russe al di fuori dei confini dell'Ucraina riconosciuti a livello internazionale. Da quando la Russia ha avviato questa non provocata "guerra dei tre giorni", l'Ucraina ha contrastato con successo l'avanzata degli invasori, contrattaccando e liberando un numero considerevole di territori dal controllo militare temporaneo della Russia. Le forze ucraine hanno inoltre fortemente eroso l'arsenale militare russo.
La perseveranza dell'Ucraina di fronte all'aggressione di una superpotenza è un esempio di cosa significhino coraggio e determinazione. Il sostegno militare occidentale all'Ucraina si sta rivelando ogni giorno decisivo sul campo di battaglia, aiutando l'Ucraina a esercitare il proprio diritto all'autodifesa sancito dalla Carta delle Nazioni Unite.
Le proposte russe per un cessate il fuoco o negoziati di pace non sono sincere e rappresentano soltanto una serie di acrobazie nel campo delle pubbliche relazioni. Tali proposte rivelano, a un'attenta analisi, l'atteggiamento imperialistico della Russia che chiede all'Ucraina di arrendersi e di consegnare ulteriori parti del suo territorio e della sua sovranità.
La vera strada verso la pace è il ritiro completo delle forze russe fuori dai confini dell'Ucraina riconosciuti a livello internazionale e il completo abbandono da parte della Russia della sua politica di aggressione. La Russia ha avviato in Europa una guerra non provocata in palese violazione del diritto internazionale e in particolare della Carta delle Nazioni Unite. La pace non può essere ottenuta lasciando un'Ucraina disarmata di fronte a una Russia fortemente militarizzata che non ne riconosce la sovranità e non nasconde gli appelli popolari al genocidio.
Falso mito: la Russia è in guerra con l'Occidente. In Ucraina è in atto una guerra per procura della NATO in cui l'Ucraina è solo il campo di battaglia. La Russia si limita a difendersi dall'aggressore ucraino.
Dal 24 febbraio 2022, giorno in cui la Russia ha lanciato un'invasione su larga scala del paese, l'Ucraina non ha smesso di difendersi. La false affermazioni secondo cui l'Ucraina sarebbe l'aggressore costituiscono una classica tattica di manipolazione al servizio del Cremlino tesa a rappresentare la Russia come vittima e a distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dal fatto che il vero aggressore è la Russia. Benché questa versione dei fatti sia chiaramente assurda per la maggior parte del mondo, in Russia, grazie a un contesto dell'informazione sempre più chiuso in sé stesso, essa funge da esortazione a serrare le fila per mobilitare il sostegno dell'opinione pubblica alle politiche autoritarie del Cremlino.
Le attività di disinformazione al servizio del Cremlino, intese a diffondere la menzogna che in Ucraina la Russia stia combattendo contro l'Occidente, sono aumentate di intensità dopo il successo della controffensiva ucraina contro gli invasori russi. Gli esperti di disinformazione pro-Cremlino sono particolarmente inclini a diffondere questa versione dei fatti ogni volta che l'Ucraina riceve sostegno militare dai suoi partner occidentali o quando la Russia perde terreno nei territori ucraini temporaneamente occupati. Né l'UE, né l'Occidente o la NATO hanno dichiarato guerra alla Russia, gli USA e molti Stati membri della NATO forniscono assistenza militare all'Ucraina per aiutare il paese a respingere l'aggressione non provocata della Russia, ma non sono coinvolti nei combattimenti.
Falso mito: l'Ucraina cerca di procurarsi ordigni nucleari, attacca le infrastrutture nucleari civili e nasconde armi nelle centrali nucleari. L'Ucraina sta mettendo a punto una "bomba sporca". Per questo sarebbe legittimo l'uso da parte della Russia di armi nucleari tattiche contro l'Ucraina.
Si tratta qui di un groviglio di informazioni difficile da sbrogliare, benché nel complesso la tattica sia chiara. La retorica allarmista punta a sfruttare la naturale avversione dell'opinione pubblica agli armamenti nucleari e una retorica nucleare sempre più belligerante nei confronti dell'Ucraina è stata uno dei fili conduttori delle narrazioni della guerra al servizio del Cremlino.
Nonostante le continue accuse del Cremlino, non vi sono prove del fatto che l'Ucraina abbia mai lavorato allo sviluppo di armi nucleari da utilizzare contro la Russia o chiunque altro. Di fatto l'Ucraina è un paese libero da armi nucleari dal 1994, anno in cui ha firmato il memorandum di Budapest. È uno dei pochi paesi al mondo ad aver rinunciato a un arsenale nucleare, avendo eliminato gli armamenti ereditati dall'Unione sovietica. La Russia, invece, ha agevolmente dimenticato l'impegno assunto con la firma del trattato, ovvero quello di rispettare l'indipendenza, la sovranità e i confini dell'Ucraina.
Il Cremlino è inoltre sempre pronto a utilizzare l'argomento delle armi nucleari per allontanare da sé le colpe, a proferire minacce appena velate o a fare ricorso al ricatto nucleare a sostegno dell'aggressione. Creare l'immagine di un animale braccato e però dotato di armamenti nucleari (come sottolineato a più riprese dai demagoghi pro-Cremlino) va a tutto vantaggio di quest'ultimo.
La Russia ha utilizzato le sue accuse secondo cui l'Ucraina sta cercando di sviluppare una "bomba sporca" come pretesto per un'ulteriore escalation. L'Ucraina ha invitato l'AIEA a ispezionare i siti che, secondo la Russia, sarebbero utilizzati per lo sviluppo di una bomba sporca. L'Agenzia non ha ravvisato alcuna prova del fatto che l'Ucraina stia mettendo a punto materiali nucleari da usare contro la Russia.
Altrettanto infondate sono le accuse che l'Ucraina starebbe danneggiando intenzionalmente le proprie infrastrutture nucleari. In realtà, l'Ucraina e gli USA hanno cercato a più riprese di allentare la tensione intorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia. La Russia si è invece resa protagonista di molte azioni sconsiderate aventi per oggetto tale impianto. Ha trasferito attrezzature militari e truppe all'interno della centrale, ha utilizzato le zone circostanti come base per il lancio razzi e missili, assumendo di fatto il controllo della struttura e interrompendone la linea elettrica principale a più riprese. L'AIEA non ha confermato alcun bombardamento o attacco da parte dell'Ucraina alla centrane nucleare, né prima né dopo le accuse in tal senso formulate dal Cremlino.
Falso mito: tutta l'Europa aveva sostenuto l'invasione dell'Unione Sovietica da parte della Germania nazista, come ora l'Europa sostiene l'Ucraina nazista. La Russia non fa che proseguire la grande guerra patriottica in Ucraina per sradicarvi l'universo nazista.
Per anni abbiamo seguito da vicino l'utilizzo da parte del Cremlino dell'argomentazione dello "spetto nazista". Per tutto il corso della guerra il Cremlino ha utilizzato ripetutamente questo comodo elemento di disinformazione al fine di disumanizzare e diffamare gli ucraini. La rappresentazione di una Russia capace di domare il nazismo, proposta da Putin, è un classico esempio di proiezione – una strategia per allontanare da sé la colpa delle proprie azioni distruttive.
Le accuse secondo cui l'intera Europa avrebbe sostenuto l'invasione dell'Unione Sovietica da parte della Germania nazista sono del tutto stravaganti e stravolgono completamente la storia. In realtà, già nel 1942 la coalizione antihitleriana comprendeva 26 Stati, come pure i governi in esilio dei paesi europei occupati. L'asserzione della Russia secondo cui starebbe combattendo il nazismo, finalizzata a provocare una forte risposta psicologica o emotiva, non costituisce soltanto una manipolazione ma è assolutamente ridicola, in particolare considerando il fatto che il Cremlino fa perno su una retorica apertamente antisemita.
Falso mito: l'Ucraina è una creazione artificiale e non uno Stato sovrano. Il territorio ucraino fa storicamente parte della Russia. Le popolazioni che vi abitano hanno liberamente espresso la volontà politica di fare ritorno in Russia e la Russia ha pertanto un dovere patriottico di liberare e proteggere tali popolazioni.
L'Ucraina è uno Stato sovrano con identità propria e una lunga storia. Negare l'esistenza dell'Ucraina come Stato e la sua sovranità è una strategia di disinformazione che i fautori del Cremlino utilizzano ormai da anni. Quando la Russia ha cercato di giustificare l'annessione illegale di territori organizzando referendum farsa nei territori temporaneamente occupati in Ucraina, non è stata una sorpresa che l'ecosistema di disinformazione al servizio del Cremlino si sia messo nuovamente in azione per mettere in discussione la sovranità dell'Ucraina.
I sostenitori del Cremlino hanno spesso utilizzato il revisionismo storico come tattica di manipolazione per orientare il discorso pubblico verso il sostegno alle attuali politiche del Cremlino, compresi i tentativi di annessione illegale di territori temporaneamente occupati in Ucraina. L'ossessione di Putin di voler riscrivere la storia è altrettanto ben documentata.
I referendum farsa non avevano nulla di libero o democratico. Gli elettori sono stati costretti a votare da soldati armati che sono passati di porta in porta a raccogliere voti, in diretta violazione della costituzione ucraina. L'intero processo ha rappresentato una violazione del diritto internazionale ed è stato condannato dalle risoluzioni delle Nazioni Unite sull'annessione. La decisione di annettersi tali territori illustra il carattere imperialistico della guerra avviata dalla Russia.
Falso mito: in Ucraina la Russia combatte contro l'imperialismo e il neocolonialismo occidentali per creare un ordine mondiale multipolare in cui i paesi non interferiscono nei rispettivi affari interni.
Il regime del Cremlino cerca da tempo di profilarsi pubblicamente come antimperialista e anticolonialista. Tuttavia, la brutale guerra di aggressione della Russia contro l'Ucraina ha messo in luce le ambizioni imperiali e coloniali della Russia nei confronti dei paesi vicini in Europa, nel Caucaso e in Asia.
Con l'avvio della guerra nell'Ucraina orientale nel 2014, l'annessione illegale della Crimea lo stesso anno e l'inizio di un'invasione su vasta scala nel 2022, la Russia ha palesemente violato il diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite, minacciando la pace, la sicurezza e la stabilità mondiali.
Il 2 marzo 2022 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato, a stragrande maggioranza, una risoluzione che respingeva la brutale invasione dell'Ucraina da parte della Federazione russa e chiedeva alla Russia di ritirare immediatamente le sue truppe e di rispettare il diritto internazionale.
Nell'ottobre 2022 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha condannato a stragrande maggioranza i tentativi della Russia di annettere quattro regioni temporaneamente occupate dell'Ucrainaa seguito di referendum farsa.
La condanna a livello mondiale dell'aggressione militare della Russia a un pacifico paese vicino dimostra che la Russia è sola e isolata.
Falso mito: poiché l'Ucraina per anni si è resa colpevole di un genocidio nel Donbas, la Russia è dovuta intervenire per difenderne la popolazione. L'Ucraina, inoltre, conduce operazioni sotto falsa bandiera e inscena atrocità per poi accusare la Russia di crimini di guerra.
Accusare l'Ucraina di crimini di guerra e genocidio è probabilmente una delle più odiose menzogne diffuse dalla campagna di disinformazione al servizio del Cremlino. Con genocidio si intende l'annientamento deliberato e sistematico di un gruppo di persone a causa dell'origine etnica, della nazionalità, della religione o della razza. Un piano di questo tipo non è mai esistito in Ucraina e non vi è alcuna prova a sostegno delle accuse della Russia.
Uno degli esempi più lampanti di come la Russia cerchi di far ricadere sull'Ucraina i propri crimini riguarda le atrocità commesse dai soldati russi a Bucha. L'accusa che l'Ucraina abbia condotto operazioni "sotto falsa bandiera" per incolpare la Russia è tanto vergognosa quanto falsa. Al contrario, i crimini di guerra della Russia sono già stati oggetto di indagini a Bucha, Irpin, Mariupol e in molti altri luoghi.
Inoltre, attacchi deliberati della Russia contro civili e infrastrutture, tra cui scuole, ospedali e quartieri residenziali, sono stati ben documentati, ad esempio a Chernihiv, Mariupol, Kharkiv e altrove. Secondo l'ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, essi potrebbero configurarsi come crimini di guerra.
Falso mito: la Russia combatte in Ucraina una guerra santa contro satanisti sacrileghi per proteggere il cristianesimo e i valori tradizionali.
Per quanto eccentrica possa sembrare questa accusa, la Russia ha frequentemente asserito di combattere una guerra santa contro lo stesso Satana, per giustificare la guerra contro l'Ucraina. Nelle prime settimane e nei primi mesi di guerra il Cremlino ha fatto spesso riferimento a una presunta diabolica alleanza dell'Ucraina con le forze dell'Ade per spiegare la mancanza di progressi delle forze russe sul campo di battaglia.
Spesso i fautori della disinformazione al servizio del Cremlino, in particolare Vladimir Solovyov, associano al flusso di false informazioni accuse infondate nei confronti dell'Ucraina, secondo le quali il paese starebbe cercando di distruggere la chiesa ortodossa. Queste tattiche di manipolazione hanno preso vigore nel 2019, anno in cui la chiesa ortodossa ucraina ha ottenuto lo status di chiesa indipendente, e poi nuovamente nel novembre 2022, dopo l'annuncio del governo ucraino che intendeva proporre una legge per bandire le chiese affiliate alla Russia.
Demonizzare l'Ucraina e i suoi partner occidentali come infedeli senza Dio va di pari passo con la disinformazione al servizio del Cremlino secondo cui l'Occidente intende distruggere i "valori tradizionali". E presentano invece la Russia come protettore di questi valori tradizionali. La retorica sulla protezione dei valori minacciati, impregnata di omofobia, sfocia spesso in un vero e proprio incitamento all'odio.
Falso mito: gli Stati Uniti hanno finanziato, sviluppato e gestito in laboratori ucraini programmi segreti per la messa a punto di armi biologiche, sperimentando quest'ultime sulla popolazione locale, e dotando l'Ucraina di armi biologiche per attaccare la Russia.
Storie inventate come quelle sui "laboratori biologici clandestini degli Stati Uniti" costituiscono un classico esempio di teoria della cospirazione, una tattica basata sulla retorica allarmista utilizzata spesso dal Cremlino per distrarre e confondere. Inizialmente utilizzata per ostacolare il partenariato tra USA e Ucraina finalizzato a ridurre le minacce biologiche, l'ecosistema di disinformazione al servizio del Cremlino ha riorientato una vecchia campagna di disinformazione per giustificare l'invasione non provocata dell'Ucraina da parte della Russia.
La disinformazione al servizio del Cremlino mira a confondere la linea di demarcazione tra le armi biologiche e ricerca biologica, per suscitare paura, screditando al contempo l'Ucraina.Fonti autorevoli, tra cui l'alto rappresentante delle Nazioni Unite per gli affari del disarmo Izumi Nakamitsu, hanno ripetutamente smascherato le accuse secondo cui i laboratori finanziati dagli Stati Uniti in Ucraina sarebbero utilizzati per scopi militari.
Falso mito: l'UE non può sopravvivere senza le risorse energetiche russe. Gli Stati Uniti hanno spinto l'UE ad attuare politiche che hanno causato una crisi energetica globale a tutto vantaggio delle imprese energetiche statunitensi.
Il Cremlino vanta una lunga tradizione di strumentalizzazione dell'energia nelle sue relazioni esterne e la diffusione della disinformazione è parte integrante di queste tattiche. Solo che questa volta il tentativo della Russia di intimidire l'UE interrompendo i flussi del gas si è ritorto in modo spettacolare contro il Cremlino. Quando la Russia ha chiesto all'Europa di scegliere tra l'Ucraina e l'energia russa, la risposta europea è stata inequivocabile: l'Ucraina.
L'UE e i suoi Stati membri hanno rapidamente adottato varie contromisure per aumentare la sicurezza energetica, quali il piano REPowerEU e il piano "Risparmiare gas per un inverno sicuro” che prevede una riduzione volontaria del 15% della domanda di gas naturale. Le riserve di gas sotterranee dell'UE sono state riempite di oltre il 95% della loro capacità, ben più di quanto previsto per il 1º novembre 2022, termine fissato per raggiungere la capacità dell'80%. L'Europa, che si era preparata ad affrontare l'inverno, è riuscita così a non sottostare al ricatto energetico della Russia.
La disinformazione al servizio del Cremlino cerca inoltre di incrinare l'unità transatlantica, diffondendo la falsa immagine di una perdita di sovranità dell'UE. Più nello specifico, secondo queste fonti gli Stati Uniti avrebbero sottomesso l'Europa, traendo benefici dalle turbolenze sui mercati mondiali dell'energia. Tuttavia, la diversificazione dell'approvvigionamento energetico è una pietra angolare della politica energetica dell'UE. Contribuisce a rafforzare la sicurezza energetica europea, a prevenire la monopolizzazione e a introdurre una maggiore concorrenza nel mercato dell'energia.
Falso mito: l'UE ha causato una carenza alimentare a livello mondiale vietando i prodotti agricoli e i fertilizzanti russi. La Russia non ha alcuna responsabilità per la crisi alimentare mondiale. L'UE tiene per sé tutti i cereali provenienti dall'Ucraina, riducendo alla fame altri paesi.
Invadendo l'Ucraina, la Russia ha di fatto estromesso i prodotti alimentari ucraini dai mercati mondiali e ha esacerbato la situazione economica mondiale. Le azioni della Russia sono alla base dei prezzi elevati dell'energia e dei fertilizzanti a livello mondiale, con un impatto particolare sull'Africa e sui paesi più vulnerabili, ma con un'incidenza crescente anche su altre regioni e altri paesi. 
A livello mondiale, i conflitti, i cambiamenti climatici e gli effetti duraturi della COVID-19 hanno un impatto devastante sui sistemi alimentari e sulle persone che ne dipendono. Tuttavia, l'aggressione non provocata della Russia all'Ucraina ha significativamente aggravato questi problemi e vulnerabilità.
Bombardando le infrastrutture ucraine nei settori dell'energia, dell'acqua e dei trasporti, bruciando le colture e rubando i cereali ucraini, distruggendo le attrezzature agricole ucraine e lo stoccaggio di carburante e minando i terreni agricoli, la Russia ha compromesso la produzione alimentare a lungo termine in Ucraina e le capacità di esportazione del paese.
La Russia, inoltre, continua ad applicare tasse e contingenti all'esportazione sia sui concimi che sui cereali come frumento, frumento segalato, segale, orzo e granturco.
Le sanzioni dell'UE escludono esplicitamente le forniture alimentari e i fertilizzanti: le esportazioni russe di prodotti alimentari verso i mercati mondiali non sono soggette a sanzioni. Chiunque può gestire, acquistare, trasportare e mettere a disposizione alimenti e fertilizzanti provenienti dalla Russia. Contrariamente alle false notizie diffuse dalla Russia, nessuno Stato membro dell'UE impedisce la donazione di fertilizzanti russi a paesi che ne hanno bisogno.
 Secondo le Nazioni Unite, la maggior parte delle esportazioni alimentari agevolate grazie all'iniziativa sui cereali del Mar Nero è destinata a paesi non UE. Solo il 34% di questo importo ha avuto come destinazione l'UE. E il 64% del frumento esportato ha avuto per destinazione le economie in via di sviluppo.
 L'Unione europea e i suoi partner internazionali sono in prima linea negli interventi a livello mondiale per affrontare l'insicurezza alimentare. Dall'attuazione dei corridoi di solidarietà e dell'iniziativa sui cereali del Mar Nero, i prezzi dei prodotti alimentari non hanno fatto che diminuire, ritornando ai livelli precedenti la guerra.
 Falso mito: le sanzioni occidentali nei confronti della Russia sono illegali e causano danni a livello mondiale. Esse destabilizzano l'economia mondiale e fanno aumentare il costo della vita per i comuni cittadini di tutto il mondo. Le sanzioni non hanno alcun effetto sull'economia russa e la Russia ha dimostrato che esse non funzionano.
Le false informazioni diffuse dai fautori del Cremlino riguardo alle sanzioni dell'UE e dell'Occidente sono un esempio di contraddizioni. Da un lato le sanzioni sono una forma illegale e inaccettabile di coercizione, ma dall'altro esse non hanno alcun impatto sulla Russia. Questa esercizio di disinformazione sminuisce l'impatto delle sanzioni per l'opinione pubblica in Russia, diffondendo la falsa immagine che l'Occidente sia sul punto di crollare. A livello internazionale, invece, la Russia vuole fomentare paure ingiustificate, secondo cui le azioni dell'Occidente contro la Russia avrebbero conseguenze negative sul piano mondiale.
Tutte le sanzioni dell'UE sono pienamente conformi gli obblighi derivanti dal diritto internazionale. Esse riducono le capacità della Russia di finanziare la guerra e acquisire componenti fondamentali per il suo complesso militare-industriale. Gli effetti delle sanzioni sono visibili in tutti i principali settori dell'economia russa. Nel 2022il disavanzo di bilancio della Russia è aumentato in modo esponenziale(di ben 14 volte). Nel 2022 si è registrata una contrazione dell'economia che ha raggiunto il 5%. Le sanzioni funzionano.
La decisione internazionale di fissare un massimale ai prezzi del petrolio, che mira a limitare i picchi di prezzo determinati da condizioni di mercato straordinarie, ridurrà drasticamente gli introiti che la Russia ottiene dal petrolio da quando ha avviato l'invasione dell'Ucraina. Il massimale al prezzo del petrolio servirà anche a stabilizzare i prezzi dell'energia a livello mondiale, riducendo le conseguenze negative sull'approvvigionamento energetico dei paesi terzi.
Le sanzioni dell'UE prevedono deroghe significative.. Esse escludono esplicitamente le forniture alimentari e i fertilizzanti. Inoltre, sebbene lo spazio aereo europeo non sia aperto agli aeromobili russi, gli Stati membri dell'UE possono autorizzare il sorvolo del loro spazio aereo da parte di aeromobili russi, se ciò è necessario per scopi umanitari”.

Essere pensionati

Leggo tutte le settimane le riflessioni su Le Monde della psicanalista Claude Almos e certi suoi spunti mi colpiscono.
L’ultimo riguarda i pensionati. Categoria cui ormai appartengo, anche se - lasciata la Rai - lavoro in politica e continuano a scrivere qui nella convinzione che é meglio non fermarsi perché - scusate il paradosso - avvicina il capolinea. Me lo ha insegnato mio papà che solo al limitare della sua vita, pur pensionato da tanti anni, smise di fare il veterinario di montagna. Lo scrivo con rispetto per chi la pensa diversamente e decide di vivere in totale discontinuità.
La Amos racconta dello psicodramma francese di manifestazioni di piazza in Francia per lo spostamento dell’età pensionabile media da 62 a 64 anni (in Italia siamo ora a 67).
Osserva la psicanalista: ”La retraite, c’est d’abord la perspective que l’on en a. Pour ceux dont le travail est physiquement et/ou psychologiquement pénible, cette perspective est évidemment celle de la fin d’une épreuve, et d’un soulagement. Mais elle est associée aussi, très souvent, chez les autres, à une idée plutôt joyeuse de libération. On pense que, débarrassé des obligations imposées par le travail, et redevenu pleinement propriétaire de son temps, on va pouvoir réaliser les désirs et les rêves que les contraintes horaires rendaient impossibles”.
Ma esiste un rovescio della medaglia:
”Pourtant, à ce stade déjà, des discordances se font jour.
La perspective de renouveau, dont le futur retraité se réjouit, est ternie par ses craintes – au demeurant justifiées – quant aux possibilités financières que lui donnera sa retraite ; mais elle se heurte aussi à l’image sociale de la retraite, déjà évoquée. Une image évidemment liée à celle de la vieillesse et marquée, de ce fait, par une peur, génératrice d’un rejet des personnes vieillissantes.
Le futur retraité, qui a l’impression d’être à un tournant de sa route et d’avoir néanmoins encore un certain temps de parcours devant lui, voit régulièrement, dans les yeux des autres, « The end » s’inscrire sur l’écran ».
E ancora più avanti si agita una preoccupazione: ”A la question : « Que faites-vous dans la vie ? », il répond désormais : « Je suis retraité », et ressent souvent ce mot comme une annulation de ce qu’il était auparavant. Il peut en éprouver un sentiment d’inutilité (que l’on retrouve aussi chez beaucoup de chômeurs) qui le dévalorise”.
La conclusione mi piace moltissimo e penso che sarebbe da trasformare in possibili progetti anche in politica in una società valdostana che invecchierà sempre di più: ”Le danger pour les retraités est de s’identifier à une image dévalorisée d’eux-mêmes, puis, dès lors, de renoncer à vivre, et de s’isoler.
Il faudrait donc les informer, avant même la retraite, de ce qu’elle met en jeu, et de la nécessité de s’y préparer ; et leur permettre de partager, avec d’autres (au sein des entreprises, par exemple), leurs ressentis, leurs craintes, mais aussi leurs projets. Il est essentiel en effet que les retraités comprennent qu’ils peuvent continuer à jouer un vrai rôle, aussi bien dans leur famille (auprès de leurs petits-enfants, pour qui ils sont très importants) que dans la société. La retraite n’efface ni les compétences ni les savoirs, qui peuvent continuer à être partagés, et transmis. Il serait important que les retraités eux-mêmes travaillent à le faire entendre, à faire changer l’image déformée que la société a de la retraite, et élaborent ainsi une réforme dont ils auraient le plus grand besoin”.
Sono convinto di questo e vedo persone in pensione con cui ho lavorato che sono depositari di straordinarie conoscenze e di grandi competenze, che non hanno avuto talvolta possibilità di trasmettere e comunque sono in grado di valorizzare anche dopo la pensione, mentre ciò non avviene spesso per assurdi meccanismi legati alle norme previdenziali in vigore. Non è solo un peccato, ma un vero e proprio delitto.

Lite sulla bandiera europea

Credo nel valore simbolico delle bandiere e nel loro antico significato rappresentativo. Tant’è che se oggi in Valle d’Aosta esiste l’obbligo di esposizione sugli edifici pubblici (con quella italiana e quella europea per legge nazionale) della bandiera valdostana lo si deve ad una mia legge, voluta quando ero Presidente della Regione. La legge regionale n. 6 del 2006 definì, infatti, ufficialmente- oltre all’obbligo di esporla - il riconoscimento vero e proprio della bandiera regionale rossonera, così definita: è formata da un drappo di forma rettangolare, suddiviso verticalmente in due sezioni uguali di colore nero e rosso, con la banda nera dalla parte dell’asta.
Ecco perché mi ha incuriosito l’incredibile dibattito sviluppato giorni fa all’Assemblée Nationale francese sull’esposizione sui Municipi d’Oltralpe della bandiera europea.
Apro parentesi per ricordare anzitutto la storia di questa bandiera. La bandiera dell'Europa, così come è conosciuta in tutto il mondo, simboleggia sia l'Unione Europea (UE), che l'unità e l'identità del continente europeo in generale. La bandiera è costituita da un cerchio di 12 stelle dorate su uno sfondo blu. Il cerchio è simbolo di unità, ma il numero delle stelle non dipende dal numero dei Paesi membri o fondatori dell'UE.
La bandiera nasce nel 1955.. Fu il Consiglio d'Europa, la prima assemblea comune di molti Stati del Vecchio Continente, a sceglierla nella medesima versione odierna. Nel 1983 a sua volta il Parlamento europeo la adottò e due anni dopo i capi di Stato e di governo dei Paesi membri ne fecero l'emblema ufficiale della Comunità europea, poi diventata Unione europea.
Nel 1950, come dicevamo, fu il Consiglio d’Europa ad indire un concorso, per mezzo di un apposito comitato, per selezionare la futura bandiera dell’Europa.
Arsène Heitz, che lavorava presso l’ufficio postale del Consiglio d’Europa, presentò più di 21 progetti. Fu lui a presentare il modello dell’attuale bandiera europea con la corona di stelle su uno sfondo blu. Ufficialmente furono scelte 12 stelle perché il 12 sarebbe il simbolo di perfezione e unità. Lo sfondo blu rappresenterebbe il cielo sopra l’Europa e le stelle simbolicamente tutti i popoli europei presenti e futuri.
Robert Bichet, vicepresidente del Consiglio d’Europa nel 1955, scrisse che il numero 12 “è il simbolo della perfezione e della pienezza, come i 12 apostoli, i 12 figli di Giacobbe, le 12 ore del giorno, i 12 mesi dell’anno, i 12 segni dello Zodiaco”.
Molti anni dopo la ufficializzazione della bandiera, nel 1987, l'ideatore stesso del disegno ne diede invece la spiegazione in chiave biblica, citando un versetto dell’Apocalisse: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”; e anche lo sfondo blu della bandiera europea sarebbe il tradizionale colore mariano.
Ma l’ex Direttore dell’Informazione del Consiglio d’Europa responsabile della realizzazione del disegno della bandiera europea, Paul Lévy, in un’intervista del 1998, smentì categoricamente che il significato della bandiera avesse una connessione col culto mariano e di fatto chi indicava come ispirazione una vetrata delle tante che adornano la cattedrale di Strasburgo, che raffigura la Vergine con sopra un circolo di dodici stelle gialle, che ho visto coi miei occhi. A smentire la tesi il modello presentato da Arsène Heitz che aveva nel bozzetto 15 stelle e non 12. Il caso volle, però, che il giorno scelto per l'introduzione ufficiale della bandiera europea fosse proprio l'8 dicembre del 1955, giorno della festa dell’Immacolata Concezione, una delle feste più importanti legate alla Vergine Maria.
Ma torniamo alla polemica francese sulla bandiera: ho approfondito il tema dopo aver letto un articolo di Paolo Lepri sul Corriere, essendomi sfuggita la questione nella lettura dei giornali francesi.
Racconta il giornalista: “Alla fine i macroniani ce l’hanno fatta ad approvare nell’Assemblea Nazionale (poi sarà la volta del Senato) la legge sull’esposizione della bandiera europea accanto a quella francese nei municipi che abbiano una popolazione superiore ai 1.500 abitanti. Ma l’infuocato dibattito che ha preceduto il voto di ieri è sicuramente il segnale di una politica malata, la cui febbre non può essere spiegata soltanto con le tensioni seguite al varo della controversa riforma delle pensioni”.
Ancora Lepri: “Vedere il Rassemblement National di Marine Le Pen e La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon cercare di affossare il provvedimento, quasi di comune accordo, non è stato certo un bello spettacolo. Un emendamento comune (al quale si sono associati anche i gaullisti di Les Républicains, sempre più in concorrenza con i lepenisti) ha sfiorato nei giorni scorsi la maggioranza. Fortunatamente alcuni parlamentari ecologisti hanno votato insieme allo schieramento governativo.
Anche se da una parte si è sottolineata la necessità di rivendicare il primato nazionale («Il popolo francese si inchina solo ai tre colori della nostra bandiera», ha detto Jean-Philippe Tanguy, di RN) e dall’altra l’inopportunità di una legge costosa e senza interesse («State umiliando l’Assemblea», ha sostenuto Antoine Lèaument di LFI), forse non esagera chi — come il deputato di Reinassance Mathieu Lefèvre, relatore del provvedimento — accusa tanto l’estrema destra quanto l’estrema sinistra di «coltivare l’ambizione» di un’uscita della Francia dall’Ue”.
Così conclude Lepri e concordo del tutto: “È comunque certo che la tentazione nazionalistica, nelle sue varie declinazioni, può fare molto male a un Paese che avrebbe bisogno di ritrovare la strada della concordia. I simboli (in questo caso le bandiere) sono molto importanti. Più in generale, l’adesione alla costruzione europea rappresenta il principale test di affidabilità democratica per una forza politica. Non solo in Francia”.
Aggiungo solo che alla reticenza sulla legge dei centristi di MoDem astenutisi in Commissione, si sono sommati i socialisti che, pur distinguendosi da Mélenchon e compagni, hanno proposto loro - e mal se ne comprende la ragione - di non mettere la bandiera nei comuni sotto i 1500 abitanti e questo esclude dall’obbligo il 78% dei comuni francesi!
Il dibattito ha evidenziato in sostanza un misto fra sciovinismo e antieuropeismo, venato a tratti da cattiveria e talvolta da stupidità.

Quando le regole sono sostanza

Non sono mai stato un ‹àrbiter eleġanzi̯àrum› (tradotto dal latino.«arbitro delle eleganze») quell’appellativo che - da Treccani - viene usato oggi, spesso ironicamente, “a proposito di persona raffinata e ricercata nel vestire; dato da Tacito (ma nella forma elegantiae arbiter, Annali XVI, 18) a un Gaio Petronio, identificato di solito con Petronio autore del Satyricon”.
Non credo neanche di essere mai stato un maniaco del Galateo, che racchiude in sé tutte le norme e buone usanze che ogni persona dovrebbe seguire nelle varie situazioni pubbliche, siano esse momenti particolari della vita di ogni individuo (matrimoni, feste o lutti), oppure situazioni più comuni, come cene in un ristorante, incontri con un amico, viaggi e doni. Galateo la cui origine viene dall’opera scritta da Giovanni Della Casa, pubblicata postuma nel 1558 e intitolata, appunto, Galateo overo de’ costumi.
Vi è poi - altro riferimento - il Cerimoniale (dal latino caerimōnĭa ‘venerazione delle cose sacre, culto’), che ho visto all’opera nella sua versione laicizzata nei miei ruoli nella sfera pubblica. Si tratta del complesso delle norme e procedure, scritte o tradizionali, che presiedono alla celebrazione di un atto solenne, avente carattere civile o religioso, o che sono imposte in determinati ambienti e circostanze, tipo incontri e manifestazioni. Si può usare, abbastanza sovrapponibile, anche il termine Protocollo e cioè nient'altro che un regolamento, un manuale di regole e costumi da seguire.
Vi è infine in termini più generali l’Educazione (dal verbo latino educĕre o educare,entrambi con il significato di «trarre fuori») è l'attività, influenzata nei diversi periodi storici dalle varie culture, volta allo sviluppo e alla formazione di conoscenze e facoltà mentali, sociali e comportamentali in un individuo. Da qui il tratto distintivo fra educato e maleducato, che dice più di mille parole.
Cosa c’entra questo ragionamento? Queste diverse materie che fissano paletti nei comportamenti personali e sociali rischiano ormai nella quotidianità di essere spazzati via, come se si trattasse di cascami del passato da sradicare in una logica dell’informale, del casual e persino dell’inciviltà, come apparente e salvifica rottura di schemi tradizionali.
Non sono d’accordo: ci sono regole, usi, costumi, consuetudini, prassi che dal piccolo al grande, dal privato al pubblico devono inquadrare la nostra vita, pur nel rispetto dei cambiamenti e nell’eliminazione di quanto palesemente obsoleto.
Certo “rompete le righe” che vedo in giro è solo barbarie. Lo vedo, riprendendo i punti, dal look (come si dice oggi) e cioè da persone che in circostanze in cui si richiederebbe un certo abbigliamento scelgono una mise del tutto stridente.
Idem per il Galateo con certe situazioni a tavola in cui si rompe ogni logica di bon ton su questioni essenziali di postura e di uso - che so - di forchetta e coltello.
Che dire poi del Cerimoniale e del Protocollo, che spesso vengono come stracciati in occasioni importanti con imbarazzo generale o peggio ancora con difficoltà di capire come esattamente ci si debba comportare per evitare errori o cattive figure.
A cappello di tutto, ma questo dovrebbe essere anzitutto appannaggio della famiglia, c’è l’Educazione sulla quale credo sia inutile un eccesso di spiegazione, sapendo che vola alto nelle speranze di noi genitori.
Se non un ragionamento della scrittrice Natalia Ginzburg: ”Per quanto riguarda l'educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l'indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l'astuzia, ma la schiettezza e l'amore alla verità; non la diplomazia, ma l'amore al prossimo e l'abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere. Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo a insegnare il rispetto per le piccole virtù, fondando su di esse tutto il nostro sistema educativo”.

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