blog di luciano

L’Europa per crescere

Nelle scorse ore si è ricordato un anniversario marcante la storia europea: 34 anni fa cadde il muro di Berlino. Un passaggio essenziale in vista del successivo allargamento dell’Unione europea ai Paesi dell’Est e del Centro Europa, prima prigionieri del comunismo sovietico.
Un processo di progressivo inserimento nella casa comune che oggi vede in prospettiva l’arrivo di cinque Paesi balcanici, della Moldavia e della povera Ucraina e pure la Svizzera - nostra confinante - vede un nuovo movimento pro europeista. Lo stesso Regno Unito, tanto per essere chiari, si trova a fare una riflessione critica ormai maggioritaria sulla Brexit e i suoi esiti.
Ecco perché ho voluto invitare ad Aosta una personalità della struttura amministrativa del Parlamento europeo, Lauro Panella, che guida il Servizio Ricerca del Parlamento europeo, per presentare all’Università della Valle d’Aosta uno studio molto interessante. Il titolo è suggestivo: ”
Accrescere il valore aggiunto europeo in un'epoca di sfide globali. Mappatura del costo della non Europa (2022-2032)”.
La sostanza è che una serie di azioni di ”più Europa” negli spazi di ”Non Europa”, che potrebbe portare - secondo lo studio - a ”ulteriori 2 800 miliardi di EUR, portando così il PIL reale totale a un valore di quasi 20000 miliardi di EUR nel 2032. Si tratta di una stima piuttosto ambiziosa ma ragionevole, in quanto si avrebbe un tasso medio annuo di crescita del PIL reale del 2,9 % nel periodo in questione”.
Cito alcune misure possibili:
Completamento del mercato unico delle merci: migliorare l'attuazione e l'applicazione, ridurre l'eccessiva complessità amministrativa, contrastare i requisiti nazionali superflui e affrontare le norme di etichettatura non armonizzate e altri ostacoli che ancora si frappongono al commercio a vari livelli.
Completamento del mercato unico dei servizi continuare ad approfondire la fornitura transfrontaliera di servizi, ridurre le distorsioni indotte dalle preferenze nazionali, ampliarle armonizzazione, ridurre gli oneri amministrativi e contrastare gli ostacoli alla prestazione transfrontaliera di servizi e il persistere di requisiti eccessivi.
Politica di tutela dei consumatori: fornire ai consumatori informazioni pertinenti sulle garanzie commerciali di durabilità e sugli aggiornamenti di software, vietare le pratiche relative all'obsolescenza precoce, affrontare la frammentazione delle norme sul credito al consumo e adattare le norme in materia di sicurezza dei prodotti alla luce delle nuove tecnologie.
Spazio unico europeo dei trasporti:,sostenere il passaggio a modi di trasporto pubblico sostenibili, eliminare le strozzature infrastrutturali e il sottosviluppo che ostacolano la connettività verso tutte le regioni dell'UE e tra di esse, sviluppare la multimodalità, migliorare la sicurezza e l'affidabilità e costruire sistemi di trasporto orientati ai passeggeri.
Protezione delle indicazioni geografiche per i prodotti non agricoli: istituire una protezione a livello dell'UE per le indicazioni geografiche di prodotti non agricoli e garantirne l'accessibilità, l'equità e la capacità di trasmettere la reputazione e generare fiducia.
Naturalmente ci sono altre misure, come la trasformazione dei sistemi energetici dell'UE e la prevenzione degli impatti dei cambiamenti climatici, la trasformazione digitale. Mentre in materia economica si segnalano il coordinamento più efficace della politica di bilancio e sostenibilità delle finanze pubbliche, il completamento dell'unione bancaria, l’integrazione e la resilienza dei mercati finanziari.
Vengono poi segnalate priorità da valorizzare come il
programma Erasmus +, i diversi programmi di ricerca, la valorizzazione delle culture e la libertà nei media. Vengono segnalati terreni su cui lavorare, come la Sanità, la Farmaceutica, il Lavoro, la lotta alla Povertà, i Fondi strutturali e la Digitalizzazione.
Ci sono poi i capitoli sulla Giustizia e i Diritti, la Parità, la Difesa comune.
Si tratta ovviamente di una sintesi. Credo che a tutto ciò si debba aggiungere, a mio avviso, una Politica più europea, che sia però rispettosa della sussidiarietà e dunque dei diversi livelli di Governo, in cui le Regioni contino di più e non siano gli Stati a farla troppo da padroni a Bruxelles. Fondamentale e assai positiva - e lo studio la cita - la cooperazione transfrontaliera, che resta una chance essenziale per la Valle d’Aosta.

Quel baco nei pensieri

Capita di avere - e mi auguro si consideri almeno che lo faccio in buona fede - un rovello o meglio un baco che torna nei miei pensieri.
Lo faccio nella considerazione che nel dibattito politico ci debba essere il tentativo di trovare quel che unisce piuttosto che quel che divide. E quel che divide dev’essere oggetto di confronto e senza questa capacità che necessità di impegno e di lealtà si entra, come dice una celebre frase latina, nel “Bellum omnium contra omnes”, che significa “guerra di tutti contro tutti”
Proviamo a partire - per una sorta di esercizio di stile - da alcune frasi contro gli ideologismi, che sono le logiche che accecano:
1. "L'ideologismo acceca la mente e impedisce il pensiero critico."
2. "Le rigide ideologie spesso ignorano la complessità della realtà."
3. "Invece di aderire ciecamente a un'ideologia, dovremmo cercare soluzioni basate sull'evidenza e sul buon senso."
4. "Le ideologie estreme possono dividere la società anziché unirla."
5. "Il dogmatismo ideologico ostacola il progresso e l'innovazione."
Proviamo a sintetizzare la logica. La furia ideologica, spinta da un'eccessiva rigidità di pensiero e l'incapacità di considerare altre prospettive, può portare a tensioni e conflitti. È importante promuovere il dialogo e la comprensione reciproca per cercare soluzioni pacifiche ai problemi.
Sarò ingenuo, naïf o chissà cosa. Ma a certe cose credo fermamente e - al di là di una vis polemica che ogni tanto esercito - ascolto volentieri pensieri diversi rispetto ai miei. La politica è spesso considerata l'arte del compromesso, perché coinvolge la negoziazione e la ricerca di soluzioni che tengano conto delle diverse opinioni, esigenze e interessi dei cittadini. I politici spesso devono trovare - questo è uno dei loro doveri - un equilibrio tra diverse prospettive al fine di prendere decisioni che siano accettabili per la maggioranza, che in democrazia fino a prova contraria ha obblighi rispetto a chi ha l’ha scelta per governare. Forse banale riaffermare come il compromesso è un elemento chiave nel processo decisionale politico e può contribuire a mantenere la stabilità e la coesione nella società. Per questo, a rischio di risultare ossessivo, non sopporto più le logiche settarie.
Penso ai problemi della montagna che seguo da tempo per me ormai immemorabile. Guardo con stupore quando ci si concentra su questioni che vengono enfatizzate rispetto alla vastità dei problemi da affrontare. Esiste - per fare due esempi attuali - una concentrazione di critiche sul possibile futuro delle Cime Bianche per collegare sciisticamente Cervino e Monterosa e c’è chi si straccia le vesti per la pista di sci sul ghiacciaio della Valtournenche per la Gara di Coppa del Mondo.
Tutto legittimo, ma mi chiedo sé questa logica di fissazione vera e propria abbia una sua logicità e non finisca per distogliere l’attenzione rispetto a questioni ben più vaste e cruciali. E sé questa marea montante di polemiche non sia, in questa logica di eccessi, qualcosa che serve più in una logica di propaganda come elemento aggregante per le proprie “truppe”, piuttosto che ragionare attorno a soluzioni. Più facile fomentare manifestazioni che confrontarsi con discussioni realistiche, che però obbligherebbero a disfarsi di cascami ideologici e convincere militanti caricati come molle non sarebbe facile e per loro la ricerca di punti di equilibrio risulterebbe di certo deludente.
Mi spiace che sia così. Resto convinto che - specie su sfide che si preannunciano difficili per il futuro della montagna - sia obbligatorio tagliare le forme di estremismo: chi è antagonista duro e puro si dimostra sordo rispetto alle posizioni altrui e danneggia tutti per coltivare il proprio orticello di militanti.

Vai col liscio!

Che flash dal passato che ogni tanto ritornano nella vita!
Sono stato invitato ad una festa di compleanno a Telecupole. Per chi ha vissuto l’epoca pionieristica della liberalizzazione dell’etere, con la fine del monopolio radiotelevisivo della Rai, questa tv piemontese fu sin da subito un caposaldo. Era nata nel 1979, all’inizio degli anni ruggenti delle “private”, in una grande costruzione di cemento, davvero a forma di cupola, a Cavallermaggiore, a metà strada fra Torino e Cuneo. 
L’ idea di fondare una emittente con forte indirizzo regionale venne a Pietro Maria Toselli, che ancora oggi ho visto in cabina di regia con l’entusiasmo del precursore. Certo le condizioni di quell’epoca sono cambiate e l’offerta televisiva si è moltiplicata a dismisura. Personalmente credo che esistano ancora spazi per la televisione locale, ma mantenere gli equilibri finanziari non è semplice, così come seguire l’evoluzione tecnologica.
Telecupole ha inventato e pratica ancora oggi una formula singolare: sotto la cupola c’è infatti uno studio, che è anche pista da ballo, che in certe occasioni diventa anche un ristorante. Si può definire una grande discoteca o, senza alcuna accezione negativa, una balera (parola di origine romanza che viene da ballo).
Ebbene, una serata in quel luogo, con uno spettacolo in favore di telecamere (interessante l’uso di telecamere senza cameraman e solo un operatore con telecamera a mano si aggirava nella sala), è stato come uno studio sociologico o persino antropologico.
Il pubblico che ho visto era mediamente di età elevata, direi fra i settanta e gli ottant’anni, che era lì per una concezione precisa dello stare assieme. Mi riferisco al ballo, antica pratica umana, che accomuna tutte le civiltà. E mi colpiva in queste persone di una certa età la trasformazione in pista, dove come d’improvviso il corpo riassume una sua levità e i più bravi smentiscono nei meccanismi acquisiti il peso della vecchiaia con quella ricerca spesso di un’eleganza formale nel vestire, di cui troppo spesso si è persa la traccia.
Nel locale di Cavallermaggiore a fare la parte del leone era il liscio. Un ballo da sala nato in Romagna, quindi tipicamente italiano, tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo.
Il suo nome è dovuto al fatto che i ballerini usano "scivolare" con i piedi con quelle movenze armoniose che tutti noi conosciamo. Io non so ballarlo (e quando l’ho fatto la mia goffaggine era preclara), ma ricordo locali storici valdostani dove sono stato, come il celebre Divina alle porte di Aosta raso al suolo anni fa o i balli al palchetto della mia giovinezza o ancora certi miei reportage tv sulle scuole di ballo al CRAL Cogne, dove un mondo ruotava attorno al ballo in quei locali che rappresentavano una realtà che non era solo quella dei dipendenti della grande fabbrica siderurgica.
Quel che colpisce è una frattura generazionale e cioè di come il liscio sia stato in buona parte già sostituito nella mia generazione e ancor di più da quelle successive dalla musica pop nelle sue diverse varianti e da balli meno codificati e più liberi.
Ma per i giovani e giovanissimi il fenomeno vero è la riduzione al lumicino delle discoteche, luogo cult solo sino a pochi decenni fa.
Questo cambia in profondità i comportamenti, anche se in realtà - lo si vede in molte occasioni - l’aspetto gioioso e liberatorio del ballo si mantiene tutto intatto.
Una contraddizione difficile da capire.

Venditori di leadership

Capita delle volte di non riuscire a scrivere qualche cosa di veramente efficace su di un tema. E fa piacere scoprire chi lo ha fatto.
Pensavo ad un argomento riassumibile in questo modo. Più di una volta in vita mia qualche amico mi ha invitato a partecipare a riunioni o a conferenze con cui motivatori di vario genere (alcuni si autodefiniscono coach motivazionali e il limite del coaching sta ancora nell’assenza di un inquadramento normativo, come un Ordine o un Collegio a vantaggio di chi esercita seriamente) ti spiegano la vita e ti aiutano a diventare sicuro di te in occasioni pubbliche e persino - udite, udite! - a diventare un leader.
Intendiamoci alcuni si autodefiniscono coach motivazionali e danneggiano il coaching serio, che paga l’assenza di un inquadramento normativo, come un Ordine o un Collegio professionale.
Ricordo - tornando al punto - l’entusiasmo di uno fra questi neofiti del motivazionale che mostrava i filmati del suo “leader” e poi, a sua volta, obbligava i dipendenti ogni mattina ad ascoltarlo per “migliorare sé stessi” e “sfondare nella professione”. Una sorta di persecuzione quotidiana. Altrettanto inquietante l’istruttore di palestra che mi propose di fare con lui un corso per diventare un bravo oratore, perché lui “aveva fatto una formazione” di duo e tre finesettimana con apposito attestato.
Ora leggo su L’Express la filosofa Julia de Funés che svela la pochezza di certi guru, che ammaliamo i propri adepti come avviene nelle sette.
Così dice: “On distingue généralement trois types d’autorité. L’autorité de l’antériorité, fondée sur le respect de l’ancienneté. L’autorité reposant sur le pouvoir de la supériorité hiérarchique. Et l’autorité purement charismatique liée au rayonnement d’une personnalité. Et c’est bien de celle-ci que les formations aussi coûteuses que stéréotypées en leadership prétendent s’occuper depuis des années.
« Renforcer sa confiance en soi, gagner en efficacité, devenir impactant, savoir parler en public, adopter la posture managériale » sont quelques-unes des promesses que ces formations proposent aux managers fraîchement promus”.
Anni fa fu un istruttore di ginnastica a propormi di fare un corso per parlare in pubblico e non sto a dirvi quale fosse il suo livello culturale, ma aveva fatto un corso di un finesettimana per insegnare a farlo!
Prosegue l’articolo: ”Or à la différence des contes de fées qui métamorphosent le crapaud en prince charmant, rares sont les méthodes qui parviennent à transformer un pusillanime en charismatique hors pair. Les techniques s’avèrent pour la plupart superficielles et illusoires car elles semblent ignorer que l’autorité ne s’enseigne pas. Et cela pour deux raisons de fond.
La première tient à la nature même de l’autorité, qui en empêche tout simplement l’apprentissage. On enseigne des choses stables, fondées, établies. Or l’autorité se caractérise justement par sa contingence, sa volatilité, son incertitude, puisqu’elle n’a d’autre légitimité que celle d’une puissance personnelle conférée par autrui. J’aurai beau apprendre tous les trucs et astuces pour devenir charismatique, si autrui décide et juge que je n’ai aucune autorité, je n’en aurai jamais aucune. Autrement dit, l’autorité dépend d’un avis extérieur qu’aucun apprentissage ne peut jamais garantir”.
La seconda considerazione è egualmente convincente: “La seconde tient à la singularité de l’autorité, que ces formations nient en voulant l’uniformiser par des modes d’emploi, des kits comportementaux, qui s’adressent à chaque participant comme à des centaines d’autres. Par quel miracle l’autorité pourrait-elle faire l’objet d’une recette commune ? Comment le charisme pourrait-il se réduire à un code de conduite admis ? Ces formations ne peuvent qu’aboutir pour la plupart à un formatage, à l’adoption d’une posture, qui, comme toute posture, réifie, chosifie, homogénéise, et ne s’avère finalement qu’une imposture.
Si l’autorité ne peut faire l’objet d’aucun apprentissage, d’où vient alors ce charme qu’est le charisme (charys en grec signifie charme)? De la singularité, de la puissance de l’individu, dit Nietzsche. Celui ou celle qui séduit et impacte puise sa force dans une « volonté de puissance ». Cette volonté de puissance n’est pas une volonté de pouvoir qui cherche à diminuer les autres pour mieux se rehausser soimême. Une volonté de puissance se veut elle-même, ne désire rien d’autre que son accroissement, sa propre intensification, sa pulsation permanente.
Il n’y a ici ni outil, ni méthode, ni recette, simplement l’énergie et le courage de sa propre volonté. Désirer ce qu’on désire, avoir envie de dire ce que l’on est en train de dire, est bien plus opérant que d’adopter la « posture » invoquée comme instrument de communication et d’influence sur autrui. Passer du pouvoir sur autrui à la puissance du soi, autrement dit passer de techniques formatées à une authenticité assumée, s’avère bien plus attirant et efficace que n’importe quel catéchisme comportemental”.
Dopo aver citato diversi casi di leadership, così chiude il ragionamento che affossa i venditori di fumo: ”Le charisme est affaire de style, de singularité, de personnalité, et ne peut faire l’objet d’aucun formatage postural. Mais dans un monde où l’essor du développement personnel finit par dépersonnaliser et gommer les singularités de tout un chacun par l’uniformisation des recettes qu’il marchande, où l’individualité semble toujours plus subordonnée aux techniques comportementales, cela peut paraître réconfortant pour les managers seuls face à eux mêmes de se raccrocher aux branches des conduites guidées. C’est oublier l’essentiel : le charme vient avant tout du courage d’être soi-même”.
Essere sé stessi: questa resta la chiave di lettura prioritaria e lo dico con l’esperienza fortunata di chi ha incontrato in politica molte persone carismatiche.

La politica guerriglia

Vivono in città stravolte dalla cementificazione e dall’inquinamento, dove la vita è diventata impossibile, e poi - malgrado la loro grama condizione cittadina su cui non sempre si mobilitano - con uno scatto di orgoglio firmano petizioni contro una pista di sci sul ghiacciaio, che in gran parte non sanno neppure dove sia. Lo fanno per qualunque cosa li infastidisca, immaginando una montagna disneyana, in cui questi montanari che ci vivono sono una “rottura” che turba la Natura. Lassù dovrebbe essere un luogo selvaggio, senza questi Homo Sapiens alpini che “rompono”.
Molti in questo loro estremismo sono influenzati dagli esperti certificati della montagna, di cui - quando leggi le storie personali - ti chiedi come diavolo abbiano fatto a riciclarsi dalle loro vecchie radici protestatarie sessantottine e post sessantottine. Queste eredità contestatarie li hanno trasformati a pieno in guru delle vette e dintorni. Loro hanno sempre ragione e ha torto chi la montagna la vive davvero. E certo la grave colpa ce l’abbiamo nell’aver lasciato spazi a chi piano piano si è impadronito di argomenti su cui, sproloquiando, sono ormai diventati degli intoccabili in forma di oracoli. La logica: imporre regole e indicare programmi da confusi battitori liberi, il cui leitmotiv resta quello di essere contro e dire di No.
L’avversario è il buon selvaggio, in primis incarnato nei politici locali, dipinti come speculatori in pectore, interpreti di nuove forme di cretinismo, perché abbacinati dai soldi e dal desiderio di stravolgere i propri luoghi natii. Persone regolarmente scelte in democratiche elezioni che sarebbero così stupide da segare il ramo su cui sono sedute.
Torniamo alle petizioni, perché così scrivendo mi sono fatto già qualche nemico in questa combriccola di professori che spiegano alle popolazioni cosa debbano fare nel seguire quanto loro vogliono. Quando si scatena la polemica delle truppe si va avanti come primo attacco con le petizioni militanti.
Ma si sa che questa della petizione e della firma sono come un’arma spuntata, la cui logica va svelata. Per altro è possibile che tanti dei firmatari facciano parte della vasta platea di chi non vota più alle elezioni, ma per contro sono iscritti a Change.org (sigh!).
Una piattaforma che comunque declina responsabilità sulla raccolta firme con formule del tipo “Le petizioni e le campagne su Change.org rappresentano le differenti opinioni di milioni di persone. Non ci assumiamo la responsabilità per le loro opinioni, né monitoriamo i contenuti sotto il profilo della rispettiva legalità o esattezza”.
Sito aperto, dunque democratico, ma le clausole di sgravio da qualunque implicazione dimostrano che non si escludono rischi di tracimazione…
Una firma non si nega a nessuno, si potrebbe dire e verrebbe voglia di rispondere pan per focaccia a certi moderni Soloni con un profluvio di petizioni sulle loro questioni.
Ma proprio le le petizioni, ormai allargatesi a dismisura su qualunque argomento dello scibile umano, crollano sotto il peso di un loro utilizzo in eccesso sino a sfiorare di tanto in tanto il comune senso del ridicolo.
È bene in più ricordare nell’occasione la magia moltiplicatrice delle scatole cinesi, frutto di certi militanti a tempo pieno che nascondono dietro vesti candide l’animo da guastatori da guerriglia mediatica e pure populista. È una piccola falange macedone, assolutamente minoritaria alle elezioni, che però ha capacità miracolistica di moltiplicare pani e pesci con una guerriglia mediatica che ne amplifica le forze. Per cui, quando orchestrano campagne, usano un effetto domino: un gruppo comincia e si chiama A, si aggiunge B con diversa denominazione e più o meno gli stessi componenti, che lasciano a loro volta il testimone al Comitato di sodali denominati C e poi arriveranno D, E, F, ma sono sempre le stesse facce con cappelli diversi.
Intanto in Consiglio regionale spuntano la force de frappe rossoverde (due) con interrogazioni, interpellanze e mozioni e gli amici giuristi preparano pareri pro veritate (la loro…) e non manca mai chi sceglie le denunce di vario genere nelle differenti giurisdizioni, perché la via giudiziaria ha un effetto di lunga durata per via dei tempi della Giustizia e questo tiene in caldo le polemiche.
Un meccanismo ben oliato che trasforma nani politici in giganti, agevolati da raffiche di comunicati stampa con giornalisti che - specie se amici - non tengono conto di criteri proporzionalistici e pubblicano, senza forma alcuna di contraddittorio, quanto scritto con ripetitività assillante. Così grida isolate sembrano cori poderosi grazie all’accurata propaganda da agit-prop.
Penso che a questa macchina infernale non ci si debba assuefare e anzi si debbano contrastare queste azioni abilmente concertate in una logica di perenne e diuturno attacco.
“Non ti curar di loro…”: lo abbiamo detto spesso e invece credo sia ora di disvelare in modo sistematico ai cittadini le attività e le informazioni distorte che rischiano di stravolgere la realtà, lordando l’immagine di comunità intere.

Il silenzio delle campane

“Convoco, signo, noto, compello, concino, ploro: arma, dies, horas, fulgura, festa, rogos.
Io raduno, segno, noto, stimolo, canto, compiango: le guerre, i giorni, le ore, i temporali, le feste, gli incendi.
(Iscrizione su una campana)”

Leggo questa storia delle campane di Fontainemore, paese di montagna e, comunque la si giri, mi colpisce ma non mi stupisce. Mi sembra significativa dell’aria dei tempi in cui in molti casi si sfalda l’aspetta comunitario, che è fatto di tradizioni del passato. Fra queste figura il tempo scandito dai campanili, di cui siamo eredi e a nostra volta dovremmo trasferire la profonda ragione culturale e non solo di fede a chi verrà.
Ha scritto il monaco Enzo Bianchi: “Povere campane: da linguaggio comune, da strumento di comunicazione eccezionale, da «difensori civici», quando non sono scomparse del tutto o ridotte al silenzio, vengono trascinate sul banco degli imputati per inquinamento acustico!”.
Riassumo in questo filone quest’ultima storia che colpisce ed è avvenuta, come dicevo in premessa, nel paese della Valle del Lys. Dapprima c’è stato un divieto allo scampanio notturno delle campane della chiesa parrocchiale, ottenuto dalle autorità ecclesiastiche in risposta alle richieste di un recente residente che lamentava di essere disturbato dal loro ripetuto suono, che gli impediva di dormire. Ora - se ho ben capito - la stessa persona vorrebbe limitarne all’essenziale l’uso anche di giorno per via dei suoi turni di lavoro, che prevedono anche un suo eventuale sonno diurno. Insomma: campane à la carte, come desidera il signore. Certo il suo diritto a dormire va contemperato con il radicamento delle campane nella coscienza popolare, ma ci vorrebbe modus in rebus e non la richiesta così reiterata di silenziare...
Par di capire, tuttavia, che si tratti di una posizione solitaria, dimostratasi comunque efficace sino ad ora e la battaglia forse diventerà persino giudiziaria. Spiace che questo avvenga e trovo che sia un errore ogni demonizzazione (scusate il gioco di parole) di quelle campane, che suonano non solo nel Capoluogo, ma nelle diverse frazioni di Fontainemore dotate di quelle cappelle di frazione che sono il segno di una ramificata devozione popolare
Ricorda in un suo libro sul Medioevo Johan Huizinga: “C’era un suono che riusciva sempre a sovrastare tutto il fragore dell’esistenza affaccendata e che, per quanto disordinato e tuttavia mai confuso, sollevava temporaneamente ogni cosa in una atmosfera di ordine: il suono delle campane. Le campane erano nella vita di tutti i giorni come spiriti benigni ammonitori che, con voce familiare, annunciavano ora lutto, ora gioia, ora riposo, ora ansia, ora chiamavano a raccolta, ora esortavano”.
Vale la pena di ricordare - lo fa il sito turistico della Regione Valle d’Aosta- di come la parrocchia attuale sorga laddove ci fu una prima chiesa, da cui potrebbe persino derivare il toponimo che dà il nome al Comune: Fontainemore: “La tradizione dice che nel 543 il monaco San Mauro, attraversando il colle della Barma, giunse da Oropa in un minuscolo paese della Valle del Lys. Qui si mise a pregare nella piccola piazza, da dove sgorgò una vena d’acqua. Egli esortò la popolazione a edificare una cappella in onore di Sant’Antonio Eremita, cosa che avvenne infatti nel VII secolo. E’ così che fu dato al paese il nome di “Fontaine Maur” Fontainemore, per ricordare il Santo e la fonte”.
Che chiunque si trovi ad abitare in questo paese lo sappia e sopporti le campane per il loro significato che va al di là del semplice suono.

Parole in politica

La politica italiana concentra, per responsabilità dei politici e dei commentatori che se ne occupano, determinati periodi a parole specifiche. Facile immaginare che la più gettonata in questa stagione sarà “premierato”. Il Governo Meloni, motu proprio in una logica dirigista e autocentrata (la Meloni pensa al suo futuro…), ha lanciato una svolta presidenzialista che non stupisce e su cui avrò modo di esprimermi quando la riforma approderà alla discussione parlamentare.
Questa storia delle parole mi ha sempre appassionato e noto con piacere che ormai si usa in modo diffuso quello stesso metodo che molti di noi usavano – io lo facevo per l’Università – con schemini riassuntivi, oggi maturati in nuove modalità espressive. Ad esempio il Graphic Recording, che una società che se ne occupa per seminari, conferenze e – beccatevi l’inglese – per speech e talk così definisce: “Le idee espresse da uno speaker vengono amplificate a beneficio del pubblico grazie alla loro visualizzazione in tempo reale, sketchandole su grandi superfici di carta o con la proiezione di un disegno digitale”.
Confesso che sketchandole non so bene cosa significhi, ma immagino che abbia a che fare con sketch nel senso di schizzo, disegno.
Mi ha fatto sorridere ricordare quanto scritto per Treccani alcuni anni fa da Michele A. Cortelazzo, che fotografava termini significativi, che hanno segnato la politica italiana e ne scrisse Enrico Letta, dimostratosi nel tempo migliore come politologo che come politico: “Vaffa, rottamazione, ruspa. Tre parole, tre progetti politici a declinarle, tre leader forti a incarnarle: Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini». Si tratta, secondo quanto commenta Letta, di messaggi elementari, ma di successo, che distruggono una regola fondamentale del confronto politico democratico: il riconoscimento reciproco delle forze politiche. «Rivolgersi all’avversario, quale che sia, evocando il vaffa, volendone fare rottami o minacciando di usare la ruspa, sottintende, nemmeno troppo indirettamente, l’intento opposto: la piena delegittimazione. È, dicevo, un fenomeno inedito nella storia repubblicana»”.
Ancora oggi, specie su rottamazione, c’è chi ancora indugia e più o meno risuona quanto disse, anni fa, proprio Renzi, che fu poi, malgrado l’età, abbastanza…rottamato.
Lo cita Cortellazzo: “L’uso di Renzi della parola rottamazione (ed affini), risale almeno al 2010, quando l’allora sindaco di Firenze la utilizza in un’intervista a Umberto Rosso apparsa il 29 agosto nelle pagine fiorentine di «Repubblica»: «Dobbiamo liberarci di un'intera generazione di dirigenti del mio partito. (…) Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi». In quei mesi, Renzi utilizza tutta la famiglia lessicale legata al verbo rottamare: per esempio, pochi mesi dopo (5 novembre 2010), dice a Marco Odorisio del «Corriere della sera»: «Capisco che i tacchini non manifestino grande entusiasmo per il Natale, e che qualche rottamando si sia risentito. Ma io parlavo di rottamazione delle carriere politiche, mica delle persone».
Il termine resta brutto e nacque negli anni della motorizzazione in Italia e dunque nei gloriosi anni Sessanta ed era – lo ricorda sempre lo stesso autore per Treccani - ‘raccogliere rottami di metallo per riutilizzarli in fonderia’ e poi, nel senso più particolare di ‘portare a demolire un’auto vecchia e inquinante’; mentre è degli anni Novanta la diffusione del significato, ancora più specifico, di ‘favorire la demolizione di auto vecchie e inquinanti, concedendo un incentivo economico, pubblico o privato, per l’acquisto di auto nuove’ (e da qui ulteriori estensioni nell’ultimo ventennio, in riferimento a diversi tipi di sanatorie a pagamento, come la rottamazione delle cartelle esattoriali, per quella che ufficialmente si chiama «definizione agevolata delle pendenze fiscali»).
Spiega Cortellazzo: “Il salto semantico fatto fare da Renzi è stato quello di attribuire rottamare e rottamazione non più a cose o entità astratte e collettive, ma a persone. Certo, come abbiamo visto, con l’esplicita sottolineatura del fatto che intendeva parlare delle carriere politiche e non delle persone. Ma ben presto, soprattutto nei giornali, rottamare è stato proprio riferito alle persone.
Resto convinto che ci voglia rispetto per le persone e che il passaggio delle competenze deve avvenire con un’alleanza fra le diverse generazioni. Il resto rischia di essere solo retorica con uno scopo preciso: liberarsi di avversari per farsi spazio.

Parole in politica

La politica italiana concentra, per responsabilità dei politici e dei commentatori che se ne occupano, determinati periodi a parole specifiche. Facile immaginare che la più gettonata in questa stagione sarà “premierato”. Il Governo Meloni, motu proprio in una logica dirigista e autocentrata (la Meloni pensa al suo futuro…), ha lanciato una svolta presidenzialista che non stupisce e su cui avrò modo di esprimermi quando la riforma approderà alla discussione parlamentare.
Questa storia delle parole mi ha sempre appassionato e noto con piacere che ormai si usa in modo diffuso quello stesso metodo che molti di noi usavano – io lo facevo per l’Università – con schemini riassuntivi, oggi maturati in nuove modalità espressive. Ad esempio il Graphic Recording, che una società che se ne occupa per seminari, conferenze e – beccatevi l’inglese – per speech e talk così definisce: “Le idee espresse da uno speaker vengono amplificate a beneficio del pubblico grazie alla loro visualizzazione in tempo reale, sketchandole su grandi superfici di carta o con la proiezione di un disegno digitale”.
Confesso che sketchandole non so bene cosa significhi, ma immagino che abbia a che fare con sketch nel senso di schizzo, disegno.
Mi ha fatto sorridere ricordare quanto scritto per Treccani alcuni anni fa da Michele A. Cortelazzo, che fotografava termini significativi, che hanno segnato la politica italiana e ne scrisse Enrico Letta, dimostratosi nel tempo migliore come politologo che come politico: “Vaffa, rottamazione, ruspa. Tre parole, tre progetti politici a declinarle, tre leader forti a incarnarle: Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini». Si tratta, secondo quanto commenta Letta, di messaggi elementari, ma di successo, che distruggono una regola fondamentale del confronto politico democratico: il riconoscimento reciproco delle forze politiche. «Rivolgersi all’avversario, quale che sia, evocando il vaffa, volendone fare rottami o minacciando di usare la ruspa, sottintende, nemmeno troppo indirettamente, l’intento opposto: la piena delegittimazione. È, dicevo, un fenomeno inedito nella storia repubblicana»”.
Ancora oggi, specie su rottamazione, c’è chi ancora indugia e più o meno risuona quanto disse, anni fa, proprio Renzi, che fu poi, malgrado l’età, abbastanza…rottamato.
Lo cita Cortellazzo: “L’uso di Renzi della parola rottamazione (ed affini), risale almeno al 2010, quando l’allora sindaco di Firenze la utilizza in un’intervista a Umberto Rosso apparsa il 29 agosto nelle pagine fiorentine di «Repubblica»: «Dobbiamo liberarci di un'intera generazione di dirigenti del mio partito. (…) Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi». In quei mesi, Renzi utilizza tutta la famiglia lessicale legata al verbo rottamare: per esempio, pochi mesi dopo (5 novembre 2010), dice a Marco Odorisio del «Corriere della sera»: «Capisco che i tacchini non manifestino grande entusiasmo per il Natale, e che qualche rottamando si sia risentito. Ma io parlavo di rottamazione delle carriere politiche, mica delle persone».
Il termine resta brutto e nacque negli anni della motorizzazione in Italia e dunque nei gloriosi anni Sessanta ed era – lo ricorda sempre lo stesso autore per Treccani - ‘raccogliere rottami di metallo per riutilizzarli in fonderia’ e poi, nel senso più particolare di ‘portare a demolire un’auto vecchia e inquinante’; mentre è degli anni Novanta la diffusione del significato, ancora più specifico, di ‘favorire la demolizione di auto vecchie e inquinanti, concedendo un incentivo economico, pubblico o privato, per l’acquisto di auto nuove’ (e da qui ulteriori estensioni nell’ultimo ventennio, in riferimento a diversi tipi di sanatorie a pagamento, come la rottamazione delle cartelle esattoriali, per quella che ufficialmente si chiama «definizione agevolata delle pendenze fiscali»).
Spiega Cortellazzo: “Il salto semantico fatto fare da Renzi è stato quello di attribuire rottamare e rottamazione non più a cose o entità astratte e collettive, ma a persone. Certo, come abbiamo visto, con l’esplicita sottolineatura del fatto che intendeva parlare delle carriere politiche e non delle persone. Ma ben presto, soprattutto nei giornali, rottamare è stato proprio riferito alle persone.
Resto convinto che ci voglia rispetto per le persone e che il passaggio delle competenze deve avvenire con un’alleanza fra le diverse generazioni. Il resto rischia di essere solo retorica con uno scopo preciso: liberarsi di avversari per farsi spazio.

No alla bambinizzazione dei cani

Mi sono convinto, guardandomi attorno in altri Paesi, che solo in Italia siamo di fronte ad un fenomeno così esteso di “bambinizzazione” dei cani. Lo avevo usato questo neologismo lo scrittore Michele Serra in una sua intervista, in cui presentava un libro “Osso” per Feltrinelli, in cui racconta la storia di un nonno, di una nipotina e di un cane. Così disse: “La bambinizzazione degli animali domestici, sostitutivi dei bambini che non si fanno più, non mi piace. Le bestie sono bestie ed è il motivo per cui le trovo straordinarie. Dovremmo riscoprire il contatto con il mistero, cani e gatti sono eredi del lupo e della tigre".
Invece è evidente una singolare trasformazione in particolare del cane attraverso una sua umanizzazione (Papa Francesco ha usato questo termine ed è stato aggredito…) non solo affettiva ma persino fisica, che non ha nulla a che fare con l’amore per gli animali domestici che ho sempre avuto e curato. Anzi, dirò di più: ho avuto cani e gatti che mi sono serviti per crescere da bambino a ragazzo e poi da adulto sono stati come membri della famiglia. Sempre rimanendo animali non umanizzati in modo grottesco, stravolgendo nei rapporti la loro natura, mancando così di rispetto alla loro e alla nostra condizione
Ci pensavo in queste ore a Milano di fronte a esempi ripetuti di cani-bambini, ormai diventati la normalità in uno stravolgimento che spaventa.
Ognuno naturalmente può far quel che vuole della sua vita e persino strumentalizzare la vita di animali, cui si fa recitare una parte non loro, violandone di fatto i diritti e la natura nel nome dei nostri interessi.
Ma a maggior ragione ci pensavo nel corso di due visite che sarebbero educative per chi confonde le cose e lo scrivo forse peccando di candore.
La prima è stata al Museo della Scienza e della Tecnica, certo un passo indietro rispetto al mondo digitale in cui viviamo e alle prospettive incredibili dei mondi virtuali ed immersivi come il
Metaverso. Ma la sua fisicità, fatta di oggetti tangibili e dell’evoluzione immaginifica di tecniche di produzione, è sicuramente arricchente anche per bambini ormai abituati a vivere in un altrove e hanno bisogno di adoperare i loro sensi nella realtà. Quel che conta è vedere alla prova la straordinaria capacità innovativa del cervello umano e dei suoi progressi. Capirlo serve anche ad afferrarne il lato oscuro per comprenderlo.
Altro esempio educativo è la Pinacoteca di Brera, che racconta di una ricchezza artistica di straordinario valore. Con il picco di personalità di Leonardo Da Vinci e della sua capacità di spaziare in materie diversissime, esempio I inventore e precursore. Anche in questo caso bisogna far aprire gli occhi alle persone, specie coloro che hanno visioni del mondo vagamente masochistiche.
Sia chiaro: l’umanità ha i suoi torti e lo vediamo, come esempio, negli scenari sanguinosi di guerra e la violenza intrinseca in troppi nostri comportamenti, ma questo non deve far dubitare dell’ingegnosità,dell’intelligenza, della genialità degli esseri umani.
Vorrei per questo, capendo le moltissime ragioni che spingono certe famiglie a rinunciare alla nascita di bambini, che ci fosse un discrimine chiaro tra il mondo animale e noi esseri umani, che pure abbiamo noi stessi una natura animale dentro la Natura nel suo complesso. Ma è indubitabile la progressiva differenziazione dell’essere umano dagli altri animali quale frutto di un lungo processo in cui molti fattori hanno interagito tra loro. Emergono - e mi limito a qualche punto - le particolarità nostre, come il linguaggio articolato, l’intenzionalità condivisa, la capacità di insegnare, il pensiero simbolico e astratto, il progresso culturale, l’autocoscienza.
Siamo complessi, difficili, contraddittori, autolesionisti, litigiosi e via di questo passo.
Ma è bello pensare a quel che ha scritto Vasco Pratolini: “L'uomo è come un albero e in ogni suo inverno levita la primavera che reca nuove foglie e nuovo vigore”.

L’antisemistismo svela i finti democratici

Non si può nella vita tenere il piede in due scarpe, cari antisemiti di una Sinistra estrema o del sedicente Progressismo (quelli di stampo neofascista mi stupiscono meno, avendo l’odio per gli ebrei nel DNA).
Spesso sono gli stessi che celebrano con commozione la Resistenza e fanno grandi proclami sulla Costituzione antifascista e ricordano il giorno della Memoria l’orrore dei lager. Per poi contraddirsi.
Meglio di tutti lo ha ricordato come lezione di vita il grande Mattia Feltri, giorni fa, nella sua rubrica:”Perché a Chicago, durante una manifestazione propalestinese, sono stati aggrediti degli ebrei? Perché sugli usci delle case abitate da ebrei a Varsavia si disegna la stella di David? Perché nei cortei pacifisti romani si dichiara Israele stato nazista e terrorista? Perché i partecipanti agli stessi cortei strappano la bandiera di Israele dalla Fao? Perché nei cortei pacifisti milanesi si chiede di aprire i confini per andare ad ammazzare gli ebrei? Perché nell'aeroporto di Makhachkala, Dagestan, si organizza una caccia all'ebreo? Perché fuori dallo stesso aeroporto un bambino dice di essere andato lì per veder uccidere gli ebrei? Perché una ragazza esibisce un cartello con la stella di David infilata nella spazzatura per far pulizia nel mondo? Perché nelle università americane si inneggia al pogrom di Hamas come igiene mediorientale? Perché a Tunisi si assalta la sinagoga e si dà fuoco ai testi sacri? Perché a Lione la sinagoga viene vandalizzata? Perché a Berlino una sinagoga è colpita da una bomba molotov? Perché i ragazzi di Sydney chiedono la riapertura delle camere a gas? Perché nella metropolitana di New York si scrive di uccidere gli ebrei? Perché in Circassa si sollecita di espellere tutti gli ebrei? Perché a Stanford un professore mette gli studenti ebrei in un angolo? Perché a Seul si inneggia alla soluzione finale contro gli ebrei? Perché nessuno si sogna né si sognerebbe mai (e ci mancherebbe) di dire o fare altrettanto con i palestinesi? Perché con gli ebrei sì e coi palestinesi (e ci mancherebbe) no? Perché, se non è precisamente antisemitismo? Il nostro solito, vecchio, mai scomparso antisemitismo?”.
Sull’Express Anne Rosencher impicca l’aggregazione della Sinistra francese (dove sulle case degli ebrei sono state dipinte stelle di David!) ormai antagonista e molto vale per l’Italia: “Depuis quelques jours, des Français ayant voté La France insoumise (LFI) aux dernières élections jurent qu’on ne les y prendra plus. Dans quelle proportion ? Nous verrons vite. Mais le constat s’impose dans les conversations : les ergotages honteux de LFI, qui n’a pas su qualifier de terroriste l’attaque du Hamas contre les civils israéliens, ont sidéré nombre de ses électeurs, quelle que soit leur opinion sur le conflit israélo-palestinien et sur la riposte israélienne. Depuis le 7 octobre, à mesure que les images documentaient l’attaque anti-juifs la plus barbare depuis la Shoah – pogroms, enfants kidnappés, familles massacrées, viols… –, les chipotages et les justifications de la maison Mélenchon ont révélé le pli idéologique de ce mouvement.
Ça n’est pas faute de l’avoir dit ni de l’avoir écrit. Voilà des années que LFI pratique les accommodements avec l’islamisme et l’antisémitisme. Mais il se trouvait encore beaucoup d’électeurs à gauche pour se convaincre que c’était là autant de dérapages isolés, de clins d’oeil tactiques, voire de « maladresses » ; ou que seul le social comptait. Par l’atrocité et l’ampleur des massacres qu’elle s’est employée à minimiser ou à relativiser, la réaction officielle de LFI aura dessillé nombre d’électeurs de bonne volonté. Et cette fois, Jean-Luc Mélenchon ne pourra pas compter sur la mémoire courte de l’opinion ni sur le zapping de l’actualité pour pratiquer sa politique de scandales intermittents. Cette fois, sa faute est historique, indélébile”.
La direttrice striglia poi il Partito Socialista francese che balbetta di fronte a certe posizioni odiose del leader della Sinistra unita francese.
Il passaggio conclusivo dell’ editoriale è memorabile: ”Leurs explications emberlificotées (« changer les choses de l’intérieur », « préparer une Nupes sans Mélenchon »…) illustrent à la perfection la citation de Camus : «Il y a toujours une philosophie pour le manque de courage». Il y aura bien un avant et un après 7 octobre 2023 pour la gauche française”.
E per quella italiana nelle componenti che sono simili a Melanchon e compagni.

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