Quando ero piccolo, il Carnevale aveva un momento topico ed era quando - alle elementari a Verrès - venivano Caterina di Challant e Pierre di Introd a "liberarci". Quella "liberazione", che poi ho ritrovato addirittura al Liceo Classico ad Ivrea, in un clima goliardico, appartiene in fondo allo spirito più profondo del Carnevale: prima dell'inizio della Quaresima, per alcuni giorni, esisteva questo esprit de liberté fatto di mascheramenti, licenziosità, allentamento delle gerarchie, mangiate e bevute.
Il Carnevale che torna, nel solito ruotare degli appuntamenti annuali, con quella carica eversiva che dovrebbe esserne la forza finisce, invece, per somigliare ai "botti" che vengono fatti esplodere dai ragazzini, nel senso che - basta leggere i giornali tutti i giorni - la realtà supera ormai qualunque fantasia o caricatura.
Non c'è più bisogno di mettersi in maschera, di allestire carri scherzosi, di recitare motti o poesie: il lento degrado morale, la prevalenza del cretino, la competenza ritenuta un optional fanno dell'Italia un Paese che propende ormai per l'eterno Carnevale.