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19 dic 2022

Elogio dei ”vecchi” giocattoli

di Luciano Caveri

Una larga maggioranza dei regali natalizi riguardano i bambini. Da sempre è così e regalar loro principalmente giocattoli è scontato. Lo sappiamo perché siamo stati bambini o acquirenti per comprare ai più piccoli i regali. Ho letto con interesse su Internazionale un articolo di Alex Blasdel The Guardian, che è stato messo in copertina da Internazionale, il cui titolo - che pareva contro i giocattoli stessi - mi aveva irritante, prima che lo leggessi. Dopo la lettura ho, invece, condiviso il lungo e circostanziato reportage contro quella massa di giocattoli cosiddetti “intelligenti”. Difficile riassumere bene la lunga inchiesta, per cui mil limiterò a qualche passaggio, utile viatico per regali imminenti o futuri a beneficio di un bambino. Nel cuore dell’articolo una giusta constatazione e cioè la profonda storia dei giocattoli, così espressa: “Le prime tracce di giocattoli risalirebbero almeno al tardo paleolitico superiore, tra 20.000 e 10.000 anni fa, anche se è improbabile trovare testimonianze archeologiche dei giocattoli più comuni, come le bambole fatte di bastoncini e le piccole lance di legno. Dall’età del bronzo in poi, cioè dal terzo millennio aC, i giocattoli compaiono frequentemente, e il più delle volte all’interno di tombe e altri ambienti che testimoniano la loro relazione intima con l’infanzia e il suo significato. Un’anfora attica del quinto secolo aC conservata al Metropolitan museum of art di New York raffigura un bambino che si appresta ad attraversare lo Stige per entrare nel mondo dei morti; tende una mano verso la madre, che non può afferrarla, e nell’altra stringe il manico di un carretto giocattolo. Anche se la funzione esplicitamente didattica dei giocattoli è un fenomeno relativamente recente, i giochi sono sempre stati visti come un appiglio nella scalata verso la maturità. Un giocattolo da traino a forma di ariete che risale al terzo millennio aC, proveniente dall’antica città sumerica di Eshnunna (l’odierna Tell Asmar, in Iraq), fu probabilmente usato da un bambino per imparare a gattonare e poi a muovere i primi passi. Nel deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale, archi e frecce in miniatura servono ancora oggi a preparare i bambini del popolo san al loro futuro ruolo nella caccia. Dopo la diffusione del capitalismo e dell’etica protestante dal cinquecento in poi, in gran parte del mondo occidentale il gioco era disapprovato, a meno che non fosse inteso come una forma di lavoro fisicamente, mentalmente e moralmente produttivo. I giocattoli educativi come quelli della stanza dei giochi di mio figlio sono il frutto più o meno diretto di questo zelo industrioso e moralizzatore”. Ma poi c’è stato dell’altro: “A metà del novecento questo zelo ha trovato una dubbia giustificazione neuroscientifica. A partire dagli anni sessanta, studiando in laboratorio topi, gatti e macachi rhesus, i ricercatori scoprirono che nei primi anni di vita i mammiferi avevano bisogno di una serie di stimoli mirati per sviluppare facoltà cruciali come la vista. Gli esemplari giovani, inoltre, avevano una sovrabbondanza di connessioni sinaptiche, che tendevano drasticamente a “cadere” durante lo sviluppo. Se allevati in ambienti in cui potevano interagire con giocattoli e altri animali della loro specie avevano più sinapsi di quelli cresciuti in isolamento. Erano intuizioni rivoluzionarie nel campo che oggi conosciamo come neuroplasticità, il modo in cui il cervello si modifica nel tempo. Tuttavia, questi risultati furono troppo presto estrapolati e associati agli esseri umani, senza sufficienti basi scientifiche. Nei trent’anni successivi si radicò la convinzione che la mente del bambino va stimolata con giocattoli, bilinguismo e passaggi intrauterini di Bach, per far sì che il cervello formi e conservi il massimo numero possibile di sinapsi e che il bambino raggiunga il suo pieno potenziale, evitando la fatica, la miseria e magari anche il crimine. Alla fine degli anni novanta l’esperto di neuroscienze e finanziatore della ricerca John T. Bruer lo definì “il mito dei primi tre anni”. I riferimenti alle sinapsi diedero una parvenza di fondamento biologico alla dottrina già molto diffusa del “determinismo infantile”, l’idea cioè che le prime esperienze influenzino in modo irreversibile il comportamento e le capacità di una persona. Quest’idea era già presente in molti sistemi psicologici, dal freudianesimo alla teoria dell’attaccamento di John Bowlby fino ai quattro stadi dello sviluppo postulati da Jean Piaget. Nel 1996 uno psichiatra infantile di Harvard spiegava al giornalista Ronald Kotulak: “C’è un processo di formazione che parte all’inizio dello sviluppo; alla fine di questo processo, all’età di due, tre o quattro anni, sostanzialmente abbiamo progettato un cervello che con ogni probabilità non cambierà molto”. Bisogna usare i giocattoli per stimolare subito l’apprendimento, questo era il ragionamento, altrimenti la finestra per il massimo sviluppo si chiude e sarà troppo tardi”. Da qui i giocattoli “intelligenti”: “Tuttavia, nonostante gli sforzi di milioni di genitori premurosi, è molto improbabile che bambini di tre anni diventino dei geni regalandogli un ukulele di plastica o facendogli imparare le scale al violino. Anzi, il rischio è favorire nei bambini un perfezionismo paralizzante e un profondo senso di inadeguatezza. Per lo stesso motivo, non serve crescere con centinaia di giocattoli o parlare tre lingue per diventare straordinariamente brillanti: infatti, si possono imparare lingue straniere a ottimi livelli anche nella tarda infanzia e oltre. Non sempre i genitori colgono queste sfumature. Già a metà degli anni ottanta Brian Sutton-Smith, probabilmente il più prolifico studioso del gioco di sempre, scriveva: “Ci sono scarse prove di un legame tra i giocattoli, presi di per sé, e il raggiungimento dei risultati”. Alla fine degli anni novanta, quando il mito dei primi tre anni pervadeva ancora la cultura statunitense, il comparto dei giocattoli educativi è cresciuto più di qualsiasi altro segmento del settore, a un tasso più che doppio rispetto a quello dell’economia statunitense in generale. Comprare giocattoli educativi è diventata “una sorta di magia rituale a cui ci si affida per assicurare uno sviluppo ottimale al terreno fecondo del cervello infantile”, scriveva all’inizio degli anni duemila la studiosa di comunicazione Majia Nadesan”. Mi pare che sia chiara la necessità di cautela. E preziosa risulta la citazione del Center for early childhood education della Eastern Connecticut state university, che ha studiato le tipologie di gioco stimolate dai vari giocattoli: “Dopo aver osservato i bambini alle prese con più di cento tipi di giocattoli, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che oggetti semplici, non legati a un risultato preciso, non realistici e con più parti, come un assortimento casuale di Lego, sono quelli che stimolano il gioco migliore. Quando sono impegnati in questi giochi, i bambini “tendono a essere più creativi, a risolvere i problemi, a interagire con i loro coetanei e a usare il linguaggio”, scrivono i ricercatori. I giocattoli elettronici, invece, tendono a limitare il gioco: “Durante il nostro studio, un semplice registratore di cassa in legno ha stimolato una serie di conversazioni sul vendere e comprare, mentre uno di plastica che emetteva dei suoni quando si premevano i bottoni ha spinto i bambini solo a premere ripetutamente i pulsanti”. Alla luce di questa ricerca è ormai generalmente riconosciuto che i migliori giocattoli nuovi sono quelli vecchi: bastoncini, cubi, bambole e sabbia, che non seguono procedure programmate e non richiedono comportamenti predeterminati. “Non credo che i giocattoli elettronici siano il male, ma spesso nel nostro settore tendiamo a esagerare, appropriandoci dell’esperienza dei bambini”, dice Hirsh-Pasek. “Dopo che i bambini ci giocano un paio di volte, sono più interessati alla scatola” “. Credo che sia un’esperienza che ho fatto anche io, senza alcuna scientificità, con i miei figli e che rivaluta i “vecchio” giocattoli. Pensiamoci anche a Natale.