Kabul
Confesso di aver atteso prima di scrivere. La speranza era che venissero le parole giuste per parlare delle conseguenze della trappola assassina in cui sono caduti i militari italiani.
Non ho trovato argomenti adatti, ma il silenzio, visto che ho sempre parlato, nel piccolo, degli argomenti di maggior attualità, poteva suonare come una grave omissione, una scelta di non toccare argomenti delicati o difficili.
Invece direi che non si può dir altro che questa è la guerra, anche sotto la forma nobile di quella che pudicamente si chiama "missione di pace" e che i militari di carriera sanno che la morte è un rischio connesso alla scelta professionale che hanno fatto.
Gli estremisti islamici sperano prima o poi, lì come altrove, di fiaccare la resistenza dell'opinione pubblica dei Paesi i cui ragazzi rientrano stesi nelle bare. Fanno il loro mestiere, basandosi oltretutto su di una visione del mondo astratta e fallace, che li vede protagonisti di una guerra contro l'Occidente e i suoi valori, spesso aiutati da un pacifismo simile a quello - leggete qui vicino - che aiutò Hitler a perseguire i suoi progetti.
Per cui il dolore deve servire a confermare un impegno.
- luciano's blog
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Commenti
Io non scriverò una riga.
Non lo farò, perché troppi si abbandonano a facile pacifismo stando a casa. E, spesso, non si discute, parole al vento, o peggio in un sacco vuoto.
I nostri militari sono lì a difendere una popolazione inerme e oppressa da dei pazzi teocrati. La loro presenza da sollievo e conforto, con molte opere umanitarie, a gente che da troppo tempo vive come all'epoca del sovrano cattivo medioevale.
Quoto il tuo pensiero.
Trovo...
in alcune delle "fughe in avanti" di Filippo Rossi su "Farefuturo Web Magazine" molto buon senso e un'attitudine "politica", nel senso più genuino del termine. In particolar modo, in quella di oggi, sui tragici fatti di Kabul, che esprime un pensiero, secondo me, non distante da quello di Luciano.
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Nessuna polemica nel momento del lutto
Vi prego no,
non questa volta...
di Filippo Rossi
Vi prego no. Non un'altra volta. E soprattutto non con la tragedia appena successa, con sei ragazzi italiani uccisi lontano dalle loro famiglie, con le lacrime che bagnano le guance di parenti, amici e colleghi. Non un'altra volta, così tanto per approfittare di un minuto di visibilità. Non ci interessa adesso affrontare il merito della questione su quanto sia giusto o meno stare in Afghanistan: lasciamo la questione agli esperti, agli strateghi, ai geopolitici. Ci interessa invece puntare il dito contro chi ogni volta, con una puntualità che lascia interdetti, usa “spregiudicatamente” la tragedia - come ha giustamente detto Benedetto Della Vedova - «per il piccolo cabotaggio politico». E allora, sempre Della Vedova, «parlare oggi di exit strategy è irrispettoso verso di loro e irresponsabile nei confronti dei loro colleghi ancora impegnati sul campo».
Non facciamo i nomi di chi ha fatto queste dichiarazioni, da destra e da sinistra. Non ne vale la pena. Non lo meritano. Non per quel che dicono, ovviamente legittimo, ma per quando lo dicono: nel momento dello sgomento e del lutto. Nel momento in cui la solidarietà per i morti e per i vivi che rischiano ogni giorno è un obbligo morale prima che istituzionale. Sintomo incontrovertibile di mancanza di stile. Di mancanza del minimo senso dell'onore. Non è (solo) una critica politica. È (anche) una critica umana. Di un'umanità che si declina nel tentativo sciatto di “arraffare” il momento senza pensare il respiro lungo della storia. Dimenticando il respiro sano di una comunità che si stringe attorno a sei ragazzi uccisi a migliaia chilometri da casa.
17 settembre 2009