L'altro giorno discutevamo dei 150 anni di unità d'Italia con Sergio Soave, che è mio collega al "Comitato delle Regioni", ma soprattutto professore di Storia contemporanea all'Università di Torino. Io osservavo che nessuno sa che ci saranno delle celebrazioni, lui mi diceva del suo ricordo nitido - era ragazzino - dell'esposizione di Torino per il centenario, nota come "Italia 61", i cui resti sono ancora ben visibili e io stesso mi ricordo di essere stato colpito da bambino da quelle architetture avveniristiche. Soave testimonia di un clima diverso: il Risorgimento non era ancora, come oggi, una parola per nulla evocatrice. Esisteva un entusiasmo, in quell'epoca, che finiva per confluire nelle celebrazioni, tingendole di ottimismo. Oggi, per i giovani, il Risorgimento è un capitolo nel libro di storia senza particolari ragioni d'interesse e già a me studente parevano non molto più una sequenza di guerre d'Indipendenza. E il clima - da qualunque angolatura lo si voglia osservare - è di una crisi generale, un'aria dei tempi priva di entusiasmi, che stracca. Del vizio di fondo ha scritto, su "Sette", Angelo Panebianco, rifacendosi proprio alle vicende risorgimentali: "Lo Stato unitario si trovò, fin dai primi momenti della sua formazione, a fare i conti con due macigni: l'opposizione dei cattolici e la divisione Nord e Sud. Il Risorgimento non arrivò così a costituire quel mito politico (nazionale) fondante, capace di catturare, borghesia liberale a parte, generalizzate adesioni". "Nemmeno la Repubblica - chiude Panebianco - è riuscita a creare un mito condiviso". E le cose stanno franando.