La routine uccide lo spirito d'osservazione. E' solo in certe pause, quando per ragioni varie "stacchi" o meglio riattacchi il cervello, che alla fine ci pensi. L'altro giorno, in coda per l'ingorgo causato dalla neve, mi sono goduto lo spettacolo, in un momento di schiarita con un raggio di sole, di un gruppo di passerotti che facevano la loro toilette in una pozzanghera sulla strada, sfidando il "via vai" delle macchine. In una sosta snervante in un aeroporto, ho ammirato una ragazza alta e robusta - direi fiamminga - che, incurante dello stress che l'attorniava, con le cuffiette nelle orecchie, seguiva il ritmo della musica, improvvisando coreografie in mezzo alla folla stranita. Una donna, che ho visto da una finestra nella pausa di una riunione, che passava da un cassonetto ad un altro - con le mani piene di sacchetti in plastica rigonfi - infilandosi letteralmente dentro i contenitori dei rifiuti con un gesto simile ad un tuffo. Una lunga attesa in un cimitero di città, con le macchine delle pompe funebri che arrivavano una dietro l'altro ai cancelli, e tu ti concentri sul prete che al momento topico di un'omelia all'aperto scorda il nome dello scomparso e, da vero professionista, lo chiede per poi ripeterlo più volte come per ottenere un'assoluzione. Non bisogna mai essere come anestetizzati, perché altrimenti ti perdi delle cartoline di vita. Scriveva Arthur Schopenhauer: "Le scene della nostra vita sono come rozzi mosaici. Guardate da vicino non producono nessun effetto, non ci si può vedere niente di bello finché non si guardano da lontano". Allargare gli orizzonti guardandosi di più attorno a noi e "dentro" la nostra vita.