Nella mia vita, dal punto di vista fiscale, sono sempre stato un lavoratore dipendente e lo sono, più o meno, dalla primavera del 1979. Questo vuol dire che negli anni sono stato spremuto come un limone dal Fisco. Uso scientemente la maiuscola perché se lo Stato centralista per un federalista è un orrido Moloch (dalla divinità che per antonomasia chiede un sacrificio assai costoso), l'amministrazione fiscale lo è per definizione, specie quando - come avviene per i dipendenti - il prelievo è "alla fonte" e ciò rende impossibile qualunque eventuale libidine da evasione fiscale.
Non c'è Governo della Repubblica che non abbia nel tempo annunciato un "vaste programme": una diminuzione del peso della fiscalità e una semplificazione degli obblighi e delle procedure, che obbligano oggi chiunque di noi a rivolgersi a un professionista o ad un patronato. Per fare da solo o sei nullatenente o sei Pico della Mirandola. Il Governo Berlusconi annuncia la riforma fiscale in una circostanza curiosa. Da una parte il bisogno di rilanciare l'azione di governa messa in grave crisi dalle sconfitte per la maggioranza alle elezioni amministrative e ai referendum. Dall'altra il nuovo accordo sulla governance economica dell'Unione europea (già "Patto di stabilità") obbliga l'Italia a nuovi “tagli” per rientrare dal debito pubblico. In sostanza questi obblighi impediscono ogni logica reale di diminuzione del peso fiscale, al massimo consentendo un semplice restyling, come tirare un coperta comunque troppo corta. E dunque? E dunque bisognerebbe smetterla di prendere per il naso i cittadini, perché certe riforme - sulla cui necessità solo un pazzo potrebbe dubitare - si possono concretizzare in un clima politico ben diverso da quello attuale che somigliano a quegli ultimi giorni di Pompei, prima dell'eruzione.