Ho già scritto di essere stato in Bulgaria nelle scorse ore e lì ho avuto la conferma di come questo Paese resti un laboratorio interessante e "storicizzato" per la convivenza di diverse religioni e di diverse etnie (davanti al Parlamento bulgaro c'era, a testimoniare i problemi, una manifestazione contro i rom dell'estrema destra). Tema che fa tremare i polsi e di fronte al quale ci troveremo sempre più anche noi con la massiccia immigrazione che prosegue. Quando visiti il centro di Sofia, sembra tutta "rose e fiori", visto che in un perimetro ristretto convivono la chiesa ortodossa, quella cattolica, la moschea musulmana e la sinagoga ebraica. La realtà, invece, è un'altra in tutti i Balcani. Come reso evidente dalle guerre dovute allo sfascio dell'ex Yugoslavia, il sistema di convivenza nei secoli è periodicamente saltato con stragi e orrori e non a caso le tensioni fra Kosovo e Serbia sono ancora ben vive e legate anche a fattori religiosi. Ricordo, quando durante le drammatiche vicende balcaniche, per visitare uno scenario di guerra, attraversai parte del territorio croato e vidi come ad incarnare il rinato nazionalismo fossero anche i discorsi ferocemente anti-Islam dei preti croati che ci accompagnavano e le bandiere simbolo di un certo sciovinismo garrivano in cima ai campanili. Bel problema che nei Balcani è evidente dall'incrociarsi di diverse etnie e vale sempre il caso della Bulgaria dove il dodici per cento dei musulmani sono appartenenti alla minoranza turca e lo stesso vale - per fare un altro dei tanti esempi - per la minoranza albanese in Macedonia. E' bene rifletterci per evitare che, alla fine, come sta avvenendo altrove in Italia o di recente anche in Svizzera, la discussione si sintetizzi nel "sì" o "no" alla costruzione di una moschea o degli annessi minareti. La convivenza è una moneta difficile da usare e molto preziosa, comportando sforzi degli uni e degli altri, buona fede reciproca e - spiace doverlo rimarcare - la necessità che il rispetto delle differenze culturali e religiose non sia l'alibi per una mancata integrazione nella comunità ospitante. Le comunità chiuse e impermeabili o che si sentono "alternative" o persino conflittuali rispetto alla società d'accoglienza - magari sotto dettatura di un imam intollerante - creeranno problemi.