David Cameron, il declinante leader conservatore inglese, ha aperto in queste ore - con un tempismo degno di miglior causa - alla possibilità che gli inglesi scelgano se restare o abbandonare l'Unione europea. Questo referendum avverrà, secondo il Premier inglese, «quando i tempi saranno maturi» e potrebbe chiudere il travagliato rapporto del Regno Unito con le istituzioni europee nato con l'ingresso degli inglesi nell'allora "Cee" nel 1973. Non mi stupisco affatto della notizia: l'euroscetticismo esiste nel "dna" degli inglesi, come ho avuto modo di sperimentare nella mia attività a Bruxelles e negli incontri politici che nel tempo ho avuto nel Regno Unito. Certo, più evidente negli esponenti conservatori e in quelli ultraconservatori (tipo Partito Nazionale Britannico che ha due parlamentari europei), ma vi assicuro che un referendum metterebbe in difficoltà laburisti e liberali (i più europeisti). Comune direi è la contrarietà ad un termine che non piace in Inghilterra: federalismo. Per altro basta pensare alla paura che la stessa parola incute ai nostri vicini francesi per capire quanto il vecchio nazionalismo degli Stati sopravviva. E come, proprio per converso, il nazionalismo "buono" e non giacobino dei piccoli popoli senza Stato, come può essere per la Valle d'Aosta, debba credere nel federalismo come unica forma di garanzia reale per far convivere l'enormemente grande e l'infinitamente piccolo. Per questo tifo per gli indipendentisti scozzesi - oggi al governo e resi più forti dalle risorse petrolifere - che chiedono un referendum per il loro Paese, che dovrebbe tenersi nell'autunno del 2014. Se indipendenti, gli scozzesi - proprio come garanzia contro l'Inghilterra - chiederebbero di aderire all'Unione europea. Insomma a Cameron si potrebbe dire: «chi la fa, l'aspetti».