"Re Giorgio", come talvolta lo si chiama con sarcasmo, resta al Quirinale. La definizione è maligna per due ragioni: la prima è un pettegolezzo infondato che notava la somiglianza fra Umberto di Savoia e Giorgio Napolitano e segnalava un'impossibile legame di paternità; la seconda è la maledizione di un palazzo, il Quirinale, dove sono stato spesso nella mia carriera, che passò dai Papi alla dinastia sabauda dei Re d'Italia e infine divenne la dimora del Presidente della Repubblica. Dunque chiamare "Re" l'attuale inquilino del palazzo, su cui aleggia un'aria menagrama, è un evidente calembour. Su questa rielezione, unico caso di un secondo settennato nella storia italiana, cosa si può dire? Napolitano - con cui vanto un'amicizia, che mi consente di dargli del "tu" - penso davvero non avesse voglia di restare conscio della veneranda età e della situazione difficile e sfibrante. Ma chi di "moral suasion" ferisce, di "moral suasion" perisce. Nel senso che non poteva dir di «no», dopo il "pasticciaccio brutto" creatosi dopo la trombatura in sequenza di Franco Marini e Romano Prodi con psicodramma nel Partito Democratico. Immagino che Giorgio, scusate la confidenza affettuosa e non irriverente, non pensi di stare davvero sette anni, ma immagino voglia uscire dalle secche attuali per poi godersi il meritato riposo. Resta evidente, infine, che questa sua riconferma viene costruita sulle macerie del sistema politico e istituzionale italiano e il peso sulla schiena di Napolitano finisce essere segno della drammaticità degli eventi. Spero solo che ora, a elezione fatta, Giorgio Napolitano cerchi la soluzione più saggia per questa Legislatura, evitando i rischi di un eccessivo interventismo, fatto in buona fede per riempire i vuoti, ma che alla lunga potrebbe cambiare quel ruolo di elevato profilo, quel "volare alto" della Presidenza della Repubblica. Non lo invidio, questo vecchio servitore dello Stato, richiamato in servizio per la mediocrità della politica.