Credo di essere abbastanza navigato per distinguere un'iniziativa politica da una decisione che possa avere un fondamento giuridico reale. Ma il distinguo dev'essere chiaro per tutti proprio per evitare equivoci fra "effetto annuncio" e possibilità di realizzazione. E' il caso della storia, ormai ripetuta all'infinito da Beppe Grillo, sul referendum «per uscire dall'euro», rilanciata per l'ennesima volta nella assemblea del suo Movimento, svoltasi nel fine settimana al Circo Massimo. Un luogo storico romano denso di significati, dal "ratto delle Sabine" in poi, diventato in epoca contemporanea luogo per concerti, spettacoli, festeggiamenti e anche manifestazioni sindacali e politiche, come questa kermesse del "Movimento 5 stelle". Ma dicevamo dell'euro e di questa parola d'ordine che il fondatore principale del "M5s" ha posto come pietra angolare per i mesi a venire, come ha già ripetutamente fatto in passato. L'euro, moneta europea, nasce con il Trattato di Maastricht del 1992 e l'Italia ha ratificato questo documento cardine dell'integrazione europea. La moneta è poi diventata attiva dieci anni dopo, ma la base giuridica è quella. Questo vuol dire, senza dubbio alcuno, che adoperare il referendum significherebbe, prima di poterlo fare, modificare quell'articolo 75 della Costituzione che vieta di sottoporre a referendum abrogativo le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, come quello di Maastricht. Questa previsione vale anche per quel referendum consultivo che qualcuno ipotizza. Vi è, infatti, il precedente della consultazione del 1989, quando venne chiesto al popolo italiano di esprimersi a favore o contro il mandato al Parlamento europeo per redigere un progetto di Costituzione europea. Ma questo referendum venne indetto, con le procedure complesse di cui all'articolo 138 della Costituzione, con apposita legge costituzionale, che permette appunto di fare delle eccezioni. Questa è l'unica strada per evitare che la questione resti sul legittimo piano delle opinioni politiche, non potendo però di fatto diventare qualche cosa di operativo. Si tratta, come dicevo, di un iter lungo e complesso, che non consente delle scorciatoie proprio per il carattere rigido della nostra Costituzione, nato per evitare cambiamenti costituzionali con "colpi di mano". Per altro, per chi volesse andarsene dall'euro per tornare alla "liretta", dovrebbe discutere l'uscita con i partner europei, trattandosi di una scelta che non può avere un carattere unilaterale. E' ovvio, a questo proposito, che non si può volere la "botte piena" e la "moglie ubriaca". La richiesta di uscita - diversa la posizione di chi non aderì all'euro scientemente o di chi non ha potuto farlo in assenza di "fondamentali" che lo permettessero - significherebbe di fatto uscire dall'Unione europea. Esiste anche l'ipotesi, che sarebbe assai negativa per l'Italia, di immaginare - come fanno alcuni - un'Europa a due velocità, con l'Italia che finisce in una sorta di Unione europea di "serie B" o con ritorno alla propria moneta di origine o con un "euro bis". Non mi dilungo sugli aspetti tecnici e sulle ricadute economiche di una possibile uscita. Il quadro sarebbe assai complesso e rischioso e chi la fa facile coglie solo l'effetto deflagrante. Più semplice, anche in questo, occuparsi della "pars destruens" di quella "costruens", ammesso e non concesso che si possa fare, come già argomentato. Ricordo un'intervista del costituzionalista Stefano Rodotà, candidato al Quirinale dei "Cinque stelle", in cui disse senza fumisterie: «Io sono molto scettico, anzi devo dire anche ostile. Innanzitutto vi sono vincoli di tipo costituzionale, perché qui siamo di fronte a trattati internazionali per i quali il referendum è esplicitamente escluso. Ma lasciando da parte l'argomento formale, qui c'è un problema di scarso approfondimento di questo tema. Cosa significherebbe uscire dall'Europa? Quali sarebbero i costi, non soltanto i costi in astratto per l'economia, ma proprio i costi concreti che sarebbero sopportati da chi è più debole economicamente? Siamo così sicuri che un'Italia che ha una situazione, critica, che stenta a riprendere il passo, non sarebbe stata travolta da una crisi molto più profonda se non avesse avuto l'ancoraggio europeo? Lo so che né la politica né la storia si fanno con i "se", ma credo che queste cose andrebbero prese in considerazione». Approvo e sottoscrivo.