"Parolaccia" è un termine della fine del Quattrocento e designa quelle parole impertinenti che fioriscono con volgarità nelle conversazioni ("gros mot" in francese esprime lo stesso giudizio). Così il «non devi dire le parolacce!» è fin dalla più tenera infanzia un ammonimento classico, destinato - per suo triste contrappasso - a creare un'aurea d'interesse verso quanto esplicitamente vietato (come genitori lo sappiamo, ma non possiamo astenerci dal farlo). Così per tutti la parolaccia diventa una di quelle espressioni che caratterizzano l'affermazione della propria personalità, specie se fa parte di quella logica da tribù della compagnia di amici che sboccia in epoca adolescenziale. Come tutti, ho avuto il periodo in cui le parolacce facevano pendant con il linguaggio giovanile, specie in quegli anni Settanta in cui, in una logica liberatoria, diventarono l'interiezione per eccellenza (e cioè "parola o locuzione invariabile che serve ad esprimere uno stato d'animo, di gioia, dolore, sdegno, paura ecc."). Destinata a cambiare a seconda delle frequentazioni, nel mio caso dal "pirla" dei milanesi in montagna, al sempre presente "belìn" degli imperiesi al mare, mentre al Liceo ad Ivrea emergevano i piemontesismi, tipo l'omofobo "cupiu". Si potrebbe fare un giro delle Regioni italiane, perché ognuno ha nel suo dialetto espressioni caratteristiche che fioriscono nei diversi vernacoli e finiscono per diventare delle note per una facile identificazione. Nel mondo francofono è esattamente la stessa cosa: a seconda delle varianti locali ci sono espressioni differenti. Ricordo che Roberto Benigni ha fatto del giro d'Italia delle parolacce con cui si definiscono gli organi sessuali maschile e femminile una sua gag irresistibile, che dimostra per altro soluzioni linguistiche assolutamente geniali, spesso esempio del genius loci delle diverse popolazioni che adoperano certe espressioni. Scrivo di questo tema, perché con grande divertissement, sono nella fase, con il "caverino" più piccolo, quattro anni domani, in cui - assieme alla mamma - cerchiamo di definire espressioni che possano essere adoperate in caso di necessità. Anche perché, giorni fa, alla materna gli è venuta lì per lì la parolaccia più adoperata e cioè quella con la doppia "zeta", che è termine trecentesco per designare il pene, che avrà pure etimologia incerta, ma che gode ancora di ampia diffusione. Naturalmente, con dose di evidente ipocrisia, abbiamo bollato il fatto come di grandissima gravità con una ramanzina in cui ci siamo dimostrati genitori attoniti e addolorati. Non fosse che lui all'asilo aveva carognescamente precisato «l'ho sentita da papà». Prendi e porta a casa... Per cui al pargolo sono stati suggeriti «acciderba», «urca», «mannaggia», «caspita» e via di questo passo. Penso che, per quanto l'intento sia nobile, l'uso di certi ferrivecchi sia nella pratica linguistica estremamente improbabile e artificioso. Ma almeno la coscienza è salva.