Guardavo sabato la "Coppa dei campioni" alla televisione, tifando per la Juventus, la mia squadra del cuore, anche se un pezzo di quel cuore, per l'affetto che ho da sempre verso la Catalogna, guardava con simpatia al Barcellona (la squadra che parteggia con i suoi supporter per il mondo indipendentista). E riflettevo sul calcio, sport che seguo ormai molto poco, perché amareggiato ormai da anni, non capendo il degrado crescente, fatti di ripetuti scandali, di ingaggi stratosferici, di sospetti di doping e di quella parte di tifoseria ormai inqualificabile perché violenta e volgare. Però la finalissima, con i bianconeri che tornano come un richiamo della foresta, non potevo perderla e mi è piaciuta.
Sul calcio in generale, come una ciliegina sulla torta, dopo la nuova puntata della storia italiana del "calcio scommesse", arriva lo scandalo "Fifa", che mostra come a livello mondiale ci sia una fogna a cielo aperto, di cui si occupa - come si trattasse di un film poliziesco - l'"Fbi" con i suoi vertici. Temo che a venire ci saranno nuove e amarissime sorprese sul calcio giocato e sull'assegnazione dei Mondiali, avvenuta a quanto pare a colpi di mazzette e temo ci sia poco da stupirsi. Quel che colpiva l'altra sera è il pensiero di come le grandi squadre di calcio (ho visitato in passato, con emozione, lo stadio "Camp Nou" del Barça con la sua parte fatta anche di cimeli) finiscano per avere forti storie localistiche - quella della Juve la conosco bene per affezione - che piano piano cambiano con équipes che sono sempre più simili alla "Legione straniera" con calciatori mercenari o, se preferite, simili ai gladiatori nelle città romane dell'antichità. I procuratori di oggi, la cui professione è da poco soggetta a maggiori regole, sembrano talvolta i "lanisti", che gestivano proprio i gladiatori con le loro scuole. Una volta le squadre avevano una forte connotazione municipale e regionale, poi il mercato si è allargato all'Italia e in Europa la svolta è venuta con la cosiddetta "sentenza Bosman". Si tratta della decisione presa nel 1995 dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee, che consentì allora ai calciatori professionisti aventi cittadinanza dell'Unione europea di trasferirsi gratuitamente a un altro club alla scadenza del contratto con la squadra in cui militavano. Ma soprattutto proibiva alle leghe calcistiche nazionali degli Stati europei, e anche alla "Uefa", di porre un tetto al numero di calciatori stranieri qualora ciò discriminasse cittadini dell'Unione Europea. Da lì in poi è stato un rompete le righe e alcuni commissari tecnici di squadre Nazionali, compreso Antonio Conte, piangono sul fatto che la circostanza ha creato situazioni di difficoltà per il diminuire di calciatori nel bacino cui possono attingere i singoli Stati per le loro formazioni, nel momento in cui i club sono formati da calciatori "stranieri". Non si può naturalmente tornare indietro con logiche protezionistiche o con i giochini che si fanno, ma si facevano già in passato, con gli oriundi che tornano utili "alla bisogna". Bisogna prendere atto che il calcio professionistico mantiene bandiere e identità, ma in campo ci va un pezzo di mondo e l'eccezione alla regola diventano i rari giocatori autoctoni che mantengono quel minimo di territorialità. Quel che stupisce, semmai, è la stupidità di certe tifoserie razziste e xenofobe, quando è ormai evidente che sul campo ci sono talenti multicolori e dai look più vari, fra creste e vistosi tatuaggi. Milionari senza problemi di visti e frontiere.