Sono cresciuto negli anni del boom economico e ricordo bene il primo grande magazzino del mio paese, che era un "Vegè" ed era un tripudio dell'alimentare in esposizione, segno evidente della modernità. Rispetto ai negozietti di paese, cui ero abituato, con un commercio ancora ristretto e familiare, era un altro pianeta, anche se oggi - epoca di strutture commerciali enormi - quell'antesignano farebbe la figura del nanetto. Pare, per altro, ma lo dico incidentalmente, che, dopo la bulimia da metri quadrati e da spazi smisurati con migliaia di prodotti, certi consumatori rivalutino il piccolo esercizio dal volto umano. In quegli anni la pubblicità aveva un solo nome: il "Carosello". Per chi, per ragioni anagrafiche, non sapesse di che cosa si trattasse con esattezza, segnalo come fosse una trasmissione serale costituita da sketch pubblicitari con storielle che finivano con la réclame vera e propria. Da lì passavano i prodotti alimentari industriali, fieri di esserlo. Carne in scatola, biscotti e merendine, gelati e dolciumi, pasta e riso.
Un "mondo del Bengodi" si affacciava dalla televisione e seppelliva il mondo dell'autoconsumo a carattere locale con una logica commerciale nazionale e pure, con gli anni, multinazionale (scorrete, per fare una prova, quanti marchi siano di gruppi come la "Nestlè"). Era questa una risposta della modernità alle incertezze di allora sui prodotti contadini e artigianali: l'industria che trattava, confezionava, raccontava i prodotti, garantendo una standardizzazione, non che pareva fosse una garanzia e nessuno rimpiangeva il passato. La fame patita durante la guerra, la scarsità di prodotti in periodo bellico, un mondo rurale impregnato di sana logica autarchica e lo scarso appeal merceologico di certi alimenti di tradizione erano, per contrasto, le basi del successo dei nuovi sistemi di produzione del cibo. Eravamo tutti compartecipi di questo sogno... alimentare. Poi, anni fa, la virata secca e improvvisa. Ne parla in un bell'articolo, presentato in copertina di "Internazionale", Rachel Laudan dello statunitense "Jacobin Magazine", che riesce con efficacia a criticare certi eccessi di quella che viene chiamata "L'illusione del cibo naturale", difendendo i metodi di produzione moderni che consentono di avere più cibo con meno lavoro, anche se segnala con forza e senza ambiguità il principio di una nuova etica dell'industria alimentare. Il racconto è quello del fil rouge del "cibo genuino" e del manifesto di "Slow food", che convince la Laudan a buttarsi in corsi di cucina, consumi e acquisti intelligenti. Per poi scoprire - la definizione è da incorniciare - i limiti del "luddismo alimentare" che favoleggia di un Paradiso perduto, che l'autrice smonta con grande concretezza ed abbattendo la professione di fede di chi butta via ottusamente tutta la modernità. Si rimpiange un'epoca in cui tutto era "naturale", salubre e buono. Se vi capita, leggetelo, perché segnala senza tabù e contro troppe mode l'idea che agli eccessi dell'industria alimentare finiscano per avere come contraltare una setta (e il gran business) dell'alimentare sano e tradizionale. Insomma, esiste una logica mediana, di buonsenso, che evita il ridicolo di un mondo di cartapesta. Così lo esplicita la Laudan: "Il radioso passato immaginato dai luddisti culinari non è mai esistito. La loro etica non si basa su fatti storici ma su leggende. E quindi? Forse abbiamo ancora bisogno di questa filosofia gastronomica. Nessuno può negare che il cibo industriale ha i suoi problemi. Probabilmente ci farebbe bene mangiare più prodotti freschi, naturali, locali, artigianali. Ma perché creare un mito storico a questo scopo?". Giusto, io ricordo bene certe povertà, casi di denutrizione e pure malattie, che stridono con certa retorica di un passato tutto oro e salute e materie prime eccellenti e piatti cucinati solo sopraffini. Un equilibrio è possibile contro ideologismi che non portano da nessuna parte.