Non è un certo un mistero il mio interesse per una visione strutturata della dimensione alpina, nata tanti anni fa, sin dalla lettura dell'opera massiccia curata dal grande Paul Guichonnet con il fondamentale "Histoire et Civilisations des Alpes", che risale al 1980. Ma sia chiaro che i valdostani hanno detto la loro sin dal decennio 1930-1940, quando Joseph Bréan ed Émile Chanoux spiccavano con i loro scritti dalla forte connotazione europeista, che ponevano le Alpi in una prospettiva futura di centralità nel Vecchio Continente. In epoca di totalitarismi, una visione grandiosa. Su questo filone, con un vago scetticismo di parte della politica locale, ho sviluppato il mio lavoro di tessitura di rapporti e di riflessioni sulle Alpi, che oggi vedo culminare nella realizzazione, cui ho compartecipato fin dal debutto della Macroregione alpina, anche sulla base dell'esperienza della precedente partecipazione alla "Convenzione Alpina" e di altre attività complementari (penso alla sentieristica nota come "Via Alpina").
Per questo ho resistito poco all'acquisto di "Le Alpi: Una sensazionale avventura umana" di Stephen O'Shea con la sua bella copertina vintage simile alla grafica anni Quaranta. L'autore è un canadese, giornalista e appassionato di storia europea, vive a Providence, Rhode Island. Collabora con molti giornali e riviste, come "The Observer", "The Times of London", "Variety", "Elle", "Harper's". La sua è una cronaca di un viaggio in auto effettuato durante l'estate partendo - e chi lo leggerà ne afferrerà in pieno il simbolismo - da Ginevra sino a Trieste. E' una cronaca interessante ed arguta di questo tour moderno, che riecheggia tour del passato, con racconti assai vivaci e digressioni storiche e di costume che rendono fluidi i capitoli che si susseguono. E' un andare e rientrare dal massiccio alpino molto stimolante, anche se - per chi conosco un pochino - si trova qualche piccola ingenuità, assolutamente perdonabile. Così racconta l'ingresso dal basso in Valle d'Aosta: «Lentamente le pianure del Piemonte lasciano spazio al paesaggio della Valle d'Aosta. Splendide montagne, alcune delle quali con cime dai profili bizzarri, svettano su entrambi i lati della strada. Sulle creste meno inaccessibili sorgono minacciose fortezze e scenografici castelli. Questi enormi manieri Issogne, Verrès, Ussel, Fénis, sono una testimonianza dei tempi in cui i signori locali dovevano difendersi dai saccheggiatori transalpini provenienti dalle attuali Francia e Svizzera. Il primo castello che incontro è il solido forte di Bard. La costruzione visibile oggi risale al XIX secolo, poiché la millenaria struttura originaria è stata rasa al suolo dall'esercito di Napoleone durante la campagna d'Italia. A quell'epoca, nell'anno 1800, i quattrocento uomini della guarnigione del forte riuscirono a tener testa per ben due settimane al possente esercito francese, che poteva contare su quarantamila effettivi, rallentando in maniera considerevole il piano dell'imperatore di raggiungere Torino. Ricostruita dai Savoia, la fortezza si presenta come un enorme mostro di pietra grigia. Più di cinquanta feritoie per l'artiglieria punteggiano la facciata rivolta a nord, ovvero la direzione dalla quale arrivavano gli aggressori. La struttura, che conta 283 stanze e 323 finestre, ospita anche un interessante museo alpino - fortemente voluto dall'amministrazione comunale - che, tra le altre sezioni, ne propone anche una dedicata al dahu. Il forte di Bard, così come altri manieri nella fascia subalpina, evoca l'attesa di un attacco a sorpresa, di una catastrofe imminente. E non sarà una coincidenza il fatto che proprio un figlio delle Alpi, il giornalista, drammaturgo e scrittore Dino Buzzati, sia stato l'autore di uno splendido romanzo ambientato in simili circostanze. Nel "Deserto dei Tartari", il protagonista è un giovane ufficiale che viene assegnato a una fortezza molto lontana dalla città e affacciata sul deserto del titolo, dal quale un tempo arrivavano gli attacchi nemici. Ma l'incursione non giungerà mai, e il romanzo si presenta come una riflessione sullo scorrere del tempo e della nostra esistenza. E osservando il forte di Bard si riesce quasi a immaginare la figura dell'ufficiale Giovanni Drogo dietro una delle finestre, che scruta l'orizzonte in attesa del nemico. Due mesi prima del mio passaggio, nella fortezza sono state girate alcune scene di "Avengers Age of Ultron", di Joss Whedon, in particolare quelle ambientate nel regno immaginario di Sokovia». Questo è lo stile che mischia diversi elementi che tengono viva l'attenzione. Continua così: «Lascio il forte e riprendo il cammino, addentrandomi in una valle molto antropizzata: i viadotti dell'autostrada deturpano i paesaggi delle Alpi Graie, la catena visibile anche da Chamonix e che comprende il Monte Bianco, con i suoi 4.810 metri di altitudine sul livello del mare. La vetta più alta delle Alpi è anche l'undicesima al mondo per prominenza topografica, ovvero la distanza tra la cima e i suoi piedi, che è di 4.697 metri. Alla sua destra sorge il monte Rosa, che con i suoi 4.634 metri costituisce la seconda vetta alpina, e ancora più in là c'è il Cervino, 4.478 metri. A ovest della Valle d'Aosta si innalza il Gran Paradiso, con un'altitudine di 4.061 metri, sede di un parco nazionale in alta quota creato negli anni Venti del Novecento per proteggere lo stambecco, un tempo molto diffuso sulle Alpi e in seguito prossimo all'estinzione, allarme per fortuna scongiurato proprio grazie all'istituzione del parco. Purtroppo non si può affermare lo stesso in fatto di tutela del paesaggio: sembra che non sia stato posto alcun vincolo per moderare e limitare la proliferazione di edifici e infrastrutture». Giudizio severo, ma certo se si pensa al panorama di certe zone piene di capannoni... C'è poi un passaggio che si ha tratti di ingenuità, ma ricorda proprio le antiche osservazioni dei visitatori ottocenteschi: «Con l'apertura della Valle d'Aosta al mondo esterno - le Alpi Graie costituivano in passato una sorta di cortina insuperabile - però, vennero sconfitte anche alcune patologie come la gotta e il cretinismo, che colpivano specialmente i piccoli villaggi montani. Il cretinismo - o sindrome da carenza di iodio congenita - era causato proprio dalla carenza di questo elemento nell'alimentazione, un problema che fu superato con l'avvento della ferrovia. La sindrome venne debellata anche grazie alla possibilità del tutto nuova di consumare pesce, e oggi il cretinismo non è che un brutto ricordo del passato di questa regione». Ecco la parte dedicata ad Aosta: «Ma la città ha una storia ricca, come già testimoniato dal suo nome. L'arco di trionfo eretto per celebrare l'arrivo dell'imperatore Augusto è tuttora presente all'inizio del centro storico, appena prima della Porta Pretoria, il monumentale ingresso alla città costituito da una doppia fila di archi: quello centrale, alto e spazioso, era destinato al passaggio dei carri, i due laterali, più piccoli e bassi, erano riservati ai pedoni. E' una struttura imponente, costruita con enormi blocchi di pietra sedimentaria, e rappresenta un'autentica meraviglia architettonica. In origine doveva essere ricoperta di lastre di"marmo, ma ancora oggi è in grado di stupire per solidità e dimensioni. Due torri, una di chiara origine romana, svettano alle estremità della porta, trasformando il sito in uno dei migliori testimoni della storia cittadina: varcare la Porta Pretoria è come incamminarsi nel passato di Aosta. E infatti, nel centro storico si possono scoprire numerosi e preziosissimi resti come le fortificazioni e il teatro romani: in alcuni momenti sembra quasi di sognare a occhi aperti. Nel Medioevo, quando il passo del Moncenisio non era ancora stato aperto, Aosta costituiva un passaggio obbligato per i pellegrini (e gli invasori) diretti a sud. Le chiese ottoniane, così chiamate in riferimento alla dinastia che regnò sul Sacro Romano Impero dall' 887 fino all'anno Mille, sorgono accanto ai monumenti pagani della città. Il cittadino più illustre di Aosta è Anselmo - conosciuto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec - da molti considerato un precursore della scolastica grazie al suo tentativo di riconciliare logica e rivelazione. Anselmo è conosciuto in ambiente accademico per il suo argomento ontologico per la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Una passeggiata per le vie del centro rivela la totale differenza di Aosta dalla sua sorella Susa. Il francese è ovunque: indicazioni stradali, negozi, ristoranti. A quanto pare la lingua gallica ha valicato le Alpi spingendosi fin qui. In realtà la Valle d'Aosta, o Vallée d'Aoste, è bilingue, oltre a essere la regione più piccola e meno popolosa d'Italia. Inoltre di uno statuto autonomo ottenuto dai politici all'indomani della Seconda guerra mondiale. Ma gli aostani non ignorano del tutto la loro vera nazionalità, anche se il paganesimo e il cristianesimo sono stati sostituiti da una nuova religione popolare: il calcio. La nazionale italiana scende in campo questa sera e i suoi sostenitori - più o meno tutta la città - lanciano incitamenti che risuonano lungo i vicoli e sulle rovine antiche. Quando un giocatore italiano cade a terra simulando un fallo - il che accade più o meno ogni cinque minuti - l'aria si riempie di grida divertite del tipo: "E morto! E' morto!" accompagnate da grosse risate». Chissà dove l'autore ha raccolto queste impressioni. Ecco la parte finale: «Poco dopo aver lasciato Aosta, inizio la salita verso il passo del Gran San Bernardo. Supero un ristorante chiamato "Le Lièvre Amoureux" (la lepre innamorata) e poco dopo una bottega con un'insegna piuttosto bizzarra, che recita: "Jambon depuis 1789" (prosciutto dal 1789). A quanto pare la geografia umana di questo posto è decisamente caratteristica. Davanti a me si aprono diverse alture verdi, sulle quali le conifere si alternano ai pascoli dove le mucche ruminano tranquille, ignorando il pittoresco paesaggio e concentrandosi solo sulla produzione del latte, che costituisce l'ingrediente principale della famosa fontina. Alla mia sinistra si innalza una guglia rocciosa davvero appuntita che svetta tra le nuvole. Dopo una curva scorgo finalmente la mole gloriosa del Monte Bianco. Continuo a salire, oltrepassando anche l'ultimo villaggio e il limite della vegetazione. La strada è ben tenuta e costeggiata da cartelli triangolari bianchi bordati di rosso con un punto esclamativo nero all'interno. Li interpreto come un avviso: "Non crederete a ciò che vi aspetta più avanti!". O a quello che sta arrivando dalle vostre spalle. Una Audi con targa bulgara sbuca all'improvviso nel mio specchietto retrovisore: procede a tutta velocità, così per prudenza accosto e la lascio passare. Questa strada conduce in Svizzera, la meta degli europei che desiderano ottenere una morte assistita, anche se mi sembra che l'automobilista bulgaro non abbia bisogno d'aiuto... Per fortuna la sua auto scompare». Segue la descrizione molto colorita della salita al Colle del Gran San Bernardo e la discesa in Svizzera. Un libro godibile, che accompagna il lettore attraverso un itinerario pieno di annotazioni e che dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quanto le Alpi siano un luogo unico e straordinario, che dovrebbe essere anche per noi valdostani un luogo da visitare, cercando anche altrove una parte di noi stessi.