Ascolto talvolta, su "Radio Radicale", Michele Governatori, che - da biografia sul suo sito "Derrick energia" - si occupa professionalmente di energia dal 1998. Ha lavorato in "Eni", "Edison", "Acquirente Unico", "Egl" (oggi "Axpo") dopo essersi laureato in Economia politica all'Università "Bocconi" nel 1996 e poi specializzato in energia presso la "Scuola superiore Enrico Mattei". Per un valdostano, che si interessi al destino del nostro idroelettrico - grande ricchezza autoprodotta - capire qualcosa del complicatissimo mercato energetico con una visione "laica" e non venata dagli interessi, come quelli che ormai portano il metano nelle nostre vallate o impianti di cippato di grandi dimensioni con legno di provenienza dal Centro Europa e non dai nostri boschi. In un suo recente articolo, in cui confronta la stagione scorsa con quella attuale, accende un faro (la luce!) molto interessante sui rapporti energetici fra Italia e Francia, che in parte ci riguarda per l'enorme elettrodotto costruito molti anni fa sulle montagne valdostane.
Scrive Governatori: «Il presidente di Confindustria chiudendo col suo intervento a Capri la convention dei giovani industriali 2016 ha detto che le aziende italiane continuano a pagare l'energia più di quelle tedesche, cosa che non è vera per le grandi aziende manifatturiere energivore, le quali hanno prezzi perlopiù allineati e sia da noi sia in Germania sono sussidiate: in Italia prevalentemente a spese delle bollette delle aziende più piccole e non manifatturiere (e quindi se mettiamo insieme tutte le imprese Boccia ha ragione), in Germania a spese delle bollette domestiche. Un altro luogo comune, questo fino a ora fondato, è che l'Italia sia un paese fortemente importatore di elettricità. Un motivo importante per cui è stato a lungo così è che la Francia, a cui siamo molto interconnessi, produce prevalentemente da nucleare. Una tecnologia complessivamente costosa ma i cui costi sono perlopiù fissi e non legati al volume della produzione, con prezzi per unità d'energia quindi di norma competitivi sul mercato all'ingrosso rispetto a quelli italiani. (Un cittadino francese potrebbe chiedersi perché con le sue tasse debba mantenere centrali che sono servite a lungo ad abbassare il prezzo dell'energia in Italia). Inverno 2016-2017. Il guaio è che le centrali nucleari francesi sono sempre più vecchie. Molte andranno sostituite, e molte in questo periodo sono sottoposte a interventi di manutenzione massicci, anche in seguito alla sconcertante scoperta della falsificazione di documenti sulla resistenza dei materiali da parte di fornitori di parti delle macchine. Il risultato, all'inizio di ottobre 2016, è stata una capacità produttiva transalpina mai così bassa dal 1998. Il prezzo all'ingrosso dell'elettricità oltralpe ne ha risentito passando nell'autunno 2016 in pochi mesi da 30 a 70 euro/MWh, superando quindi quello italiano che prima si aggirava sui 40 euro e che, trascinato dalla Francia, ha poi avuto fiammate fino a 60. Nell'inverno successivo la situazione si è esacerbata a causa dei consumi elettrici per il riscaldamento francese, portando spesso i prezzi d'oltralpe oltre 100 euro/MWh e i nostri oltre 80. Cosa succede tra due mercati collegati? Succede che quello con i prezzi interni più bassi esporta. E così, il flusso dell'energia tra Italia e Francia si è recentemente spesso invertito rispetto al solito, rendendo l'Italia esportatrice. Un altro effetto dell'interconnessione tra mercati è che i prezzi tendono ad allinearsi rispetto a quando erano isolati, alzandosi nel mercato che esporta e abbassandosi in quello che importa». E così anche la battuta che facevo prima riguardo ai francesi s'inverte: chi normalmente da noi si lagna del fatto che importiamo elettricità ora sarà felice di pagarla più cara grazie all'export. I Radicali, dai tempi della prima strategia energetica nazionale (ora in procinto di essere aggiornata), ma soprattutto da quelli di Chernobyl con Marco Pannella, sostengono che il nucleare non è una soluzione conveniente per produrre elettricità, e l'esperienza recente sembra dar loro ragione. Centrali con enormi costi di investimento, poco flessibili e scarsamente gestibili in una logica di mercato, e pressoché mai finanziabili senza garanzie pubbliche. «La Francia e i suoi consumatori stanno pagando care le difficoltà tecniche ed economiche di rinnovare il proprio parco - continua Governatori - che è vecchio e può continuare a funzionare solo a fronte di verifiche severe da parte della locale autorità per la sicurezza nucleare. (Una parte importante dei problemi di adeguatezza produttiva francese dipende dalla rigidità dell'inverno 2017, che ha aggiunto alla domanda elettrica quella da riscaldamento. La punta di consumo transalpina avviene infatti in inverno e non a luglio come da noi per i condizionatori, per un picco di domanda complessivo quasi doppio del nostro, che senza riscaldamento elettrico sarebbe invece più o meno allineato). Ebbene, come reagisce il nostro sistema elettrico, fortemente interconnesso a oltralpe, a questo scenario? Usando le flessibilità che a differenza di altri ha a disposizione: centrali a gas che possono accendersi usando la notevole capacità di importazione del gas di cui l'Italia dispone e di cui disporrà sempre di più stando agli investimenti già in corso di attivazione. La conseguenza è come abbiamo visto un incremento dei prezzi italiani di breve periodo sia dell'elettricità sia del gas, non però quanto quelli francesi nei momenti di scarsità. Addirittura il 24 gennaio 2017 perfino in Germania i prezzi hanno per un po' superato i 100 Euro al MWh, mentre in Italia la media nazionale si è assestata in quel periodo poco sopra gli 80 Euro/MWh. Insomma, i fatti dell'autunno-inverno 2016-2017 sembrano dar ragione alla strategia energetica italiana, che ha puntato su gas e flessibilità, oltre che sulle rinnovabili. Ci si può aspettare che anche in futuro ci sia spazio perché l'Italia resti più esportatrice che importatrice? Guardando i prezzi a termine (cioè dei contratti finanziari o fisici riferiti all'elettricità in Italia nei prossimi anni) si direbbe, al momento di questo articolo, di no. I prezzi a termine per esempio continuano a essere bassi per l'Italia nella principale borsa elettrica europea, la tedesca "Eex", indicando aspettative di scarsa domanda futura per la produzione italiana. Nello stesso tempo, prezzi a termine bassi sono un'opportunità di arbitraggio che qualcuno potrebbe cogliere di qui ai prossimi anni comprando contratti d'energia in Italia. Ma sono indicazioni che si basano su piccoli volumi scambiati, e potrebbero quindi rivelarsi poco significative. Di certo, i tempi del blackout (quello nazionale intendo, e non mi riferisco al recente disastro delle reti abruzzesi sotto la neve) sono molto, molto lontani». Ma poi aggiunge un aggiornamento assai interessante, che ci proietta nell'attualità, che deve fare i conti con gli esiti di una stagione siccitosa che per ora persiste, tranne qualche pioggia non risolutiva: «Gl'indizi per l'inverno 2017-18 sembrano andare nella stessa direzione del precedente, anzi peggio, a causa della siccità non solo estiva, ma anche fino a tutto il mese di ottobre 2017, che affligge i bacini idroelettrici alpini e ancora di più quelli appenninici. A settembre i primi, come ha scritto Jacopo Giliberto sul "Sole 24 ore" il 2 novembre 2017 riportando dati Terna, erano riempiti a poco più della metà della loro capacità idrica, e i secondi a poco più di un terzo, record negativo dal 1970. Questo significa che al possibile picco di importazione da parte della Francia quest'anno l'Italia potrebbe essere meno preparata a causa della minore capacità idroelettrica. Va molto meglio nel settore gas, dove le centrali termoelettriche, così come tutti gli utilizzatori di gas naturale in Italia, possono contare su una batteria di stoccaggi geologici pressoché pieni fino a pochi giorni fa, cioè all'inizio della stagione di erogazione, quella in cui i serbatoi iniziano a dare gas anziché riceverlo come in estate. E sarà capacità di cui c'è bisogno, visto che in Francia gli interventi ad alcune delle centrali nucleari al momento ferme stanno prendendo più tempo del previsto, compresi quelli in una diga nei pressi dell'impianto di Tricastin, a nord di Avignone. Un impianto di un migliaio di MW di potenza costruito negli anni '70 e operativo dagli '80, già teatro di due incidenti relativamente gravi nel 2008, con perdita nell'ambiente di uranio e di particelle radioattive. In seguito ai quali un consorzio viticolo della zona ottenne di togliere il toponimo "Tricastin dal suo vino, per contrastare il calo delle vendite successivo agli incidenti». Certo, a noi che siamo vicini a molte centrali nucleari francesi, l'obsolescenza di alcuni impianti (e ce ne sono anche di militari per alimentare la filiera del nucleare bellico francese) non può che preoccupare, così come fa riflettere la chance, in prospettiva, con il mercato francese a noi vicino, ma facendo i conti naturalmente con il maledetto cambiamento climatico.