Non mi infilo nella nota querelle sul grave errore che spesso si manifesta nel definire la Valle d'Aosta "Provincia di Aosta", quanto capita ancora in alcune carte intestate di uffici statali perché chi se ne occupa a Roma è uno zuccone e mancano reazioni di chi opera qui, e spesso la stessa cosa avviene nella redazioni centrali, quando emerge dare qualche notizia che ci concerne e per ignoranza spunta il termine "Provincia", soppressa sin dal decreto luogotenenziale del 1945. Poteva essere risolutiva la decisione del Parlamento di sopprimere la Provincia, istituzione inutile, avversata per la sua logica napoleonica e giacobina da Luigi Einaudi, se ci fosse in Italia un vero regionalismo, ma si sa che da noi le riforme sono sempre a metà, per cui le Province - con l'unica eccezione del Friuli-Venezia Giulia che le ha soppresse a favore delle "Unioni territoriali intercomunali" (ma non so se funzionano) - vivacchiano ancora senza risorse e con un sistema elettivo degli amministratori di secondo grado.
Ma questa questione della Provincia mi interessa, semmai, per l'uso di quel termine "provincialismo", che sembra essere adoperato solo in termine dispregiativo: «Mentalità, modo di fare, atteggiamento considerati tipici di chi vive o è vissuto in provincia, quindi caratterizzati da limitatezza culturale, meschinità di gusto e di giudizio: dare prova di un gretto provincialismo; "il provincialismo consiste quasi sempre nel timore del provincialismo e in una spasmodica cura di evitarlo" (Soldati). In senso più ampio, con riferimento a manifestazioni letterarie, artistiche, culturali, intellettuali, ristrettezza di interessi dovuta a scarsi contatti con centri e ambienti culturalmente più aggiornati e di respiro più universale: "Papini era allora, com'ero anch'io,... un uomo che aspirava ad uscire dai limiti del provincialismo culturale e spirituale per spaziare in un'aura più aperta di universalità" (Soffici); "l'accusavano di meschinità, di aridità, di provincialismo" (Bassani)». Fa sorridere come, sempre nella logica da dizionario, il suo contrario sia "apertura, modernità", pensando che in fondo quanto ci sia di ingiusto e persino di fazioso in questa definizione che darebbe ad intendere di una situazione di minorità di chi non abiti in grandi centri. Ci sarebbe poi da sottolineare che, come avviene nella catena alimentare, c'è sempre qualcuno di più grande e di più moderno, per cui qualcuno è sempre provinciale rispetto a qualcuno che crede di essere in qualche modo superiore. Propongo dunque di sdoganare il termine "provincialismo" se contrapposto a quel "globalismo" che rischia di rendere il mondo grigio se troppo uniforme e omogeneo, mentre la diversità - specie culturale - è la grande ricchezza dell'umanità. Se poi si vuole cercare una lettura più politica viene in mente una frase dello storico francese ottocentesco Jules Michelet, che guardando la storia della Francia - che ha inventato le Province e vive nella logica del "tout Paris" - ammoniva e viene in mente la Corsica di oggi in mano ai nazionalisti: «Cette unification de la France, cet anéantissement de l'esprit provincial est consideré fréquemment comme le simple résultat de la conquête des provinces. La conquête peut arracher ensemble, enchaîner des parties hostiles, mais jamais les unir». Certo che non si può negare qualche "scivolata" nei piccoli mondi ci sia, perché conoscersi tutti - come capita nella logica geografica di comunità ristrette - scalda il cuore, ma non si possono negare piccole miserie, invidie e gelosie, rivalità rancorose e pettegolezzi acidi. Lo vediamo nella nostra vita quotidiana come lato oscuro del precedente "provincialismo" buono che è fatto di solidarietà, amicizia, senso di comunità. Pensavo, come esempio di provincialismo, alla polemica tutta valdostana dell'eventuale spostamento di Sant'Orso e della sua Fiera, dapprima festeggiata dal Medioevo in poi il 31 gennaio e poi dilatatasi al precedente 30. L'associazione dei commercianti, anche a fronte di una flessione nei dati di presenza di quest'anno, essendo la "Foire" di martedì e mercoledì, l'idea di spostare la fiera o - a seconda del calendario - il sabato e la domenica precedenti o successivi, quando le date canoniche cadano nel corso della settimana. Mi pare che ci si stia già dividendo in... guelfi e ghibellini. Per capirci, però, su una polemica che potrebbe essere una tempesta in un bicchiere d'acqua noto come la Fiera nel 2019 sarebbe di mercoledì e giovedì, l'anno successivo di venerdì e sabato, nel 2021 di sabato e domenica, nel 2022 di domenica e lunedì... Personalmente credo che la tradizione possa essere innovata, immaginando però manifestazioni collaterali che coinvolgano un periodo più lungo comprensivo del fine settimana precedente o successivo a seconda delle necessità, ma togliere le due giornate tradizionali sarebbe davvero un tradimento.