Il Re Tentenna, è - per evidenza storica - Carlo Alberto di Savoia, così come inchiodato alle sue responsabilità e da quel suo essere politicamente ondivago. Definizione che deriva da una poesia satirica composta da Domenico Carbone nel 1847, che non sto a pubblicare perché lunga e complessa, ma di certo quest'opera - che circolò di nascosto per la sua intrinseca e rischiosa vis polemica - colpì il sovrano sotto la cintura con la diffusione che valse l'esilio per chi la scrisse. L'autore - cui si deve l'universalità successiva del termine "tentenna" da allora fino ad oggi - era uno scrittore e patriota piemontese di Carbonara Scrivia. In sostanza attaccò il Re di Sardegna (cui seguiva una sfilza di altri titoli) a causa delle sue incertezze nel concedere le riforme richieste a gran voce dai moti liberali del tempo.
Lo scritto oggettivamente graffiante è considerato una delle leve che spinse il sovrano a concedere nel 1848 lo Statuto detto poi "Albertino", che fu la carta fondamentale anche dell'Italia unita sino alla Costituzione repubblicana ancora in vigore. Si sappia che anche ad Aosta questo Statuto venne festeggiato con grande giubilo, anche se poi fu l'avvento del fascismo più di altro a dimostrarne la fragilità o meglio la sua flessibilità, piegata facilmente alla dittatura liberticida. Alla satira - per dire dire di come non tutti i gusti sono uguali - farà da contraltare il ricordo accorato di Carlo Alberto da parte di Giosuè Carducci in "Piemonte": «...oggi ti canto, o re de' miei verd'anni, re per tant'anni bestemmiato e pianto, che via passasti con la spada in pugno ed il cilicio al cristian petto, italo Amleto. Sotto il ferro e il fuoco del Piemonte, sotto di Cuneo 'l nerbo e l'impeto d'Aosta sparve il nemico».
Questa storia che portasse il cilicio e fosse un gigante era quanto più colpiva da ragazzino... Ma questa logica del "tentenna" è altrettanto affascinante, perché in fondo è una sorta di maschera, di idealtipo umano che ognuno di noi ha trovato nella propria vita, vedendo persone oscillare nelle loro decisioni sino a creare un qual certo sconcerto in chi osserva in certi comportamenti una mutevolezza che mai si arresta. Come se, in una roulette, la pallina non si fermasse mai alla fine del suo roteare. L'indecisione è stato uno stigma della politica valdostana e non si capisce se in fondo questo habitus mentale sia conseguenza di un moto che salga dagli elettori agli eletti o scenda dagli eletti agli elettori. Fatto che sta che certe situazioni di stallo, di impasse paiono frutto di questa attitudine e ciò è ben dimostrato dallo slogan di questi tempi del "cambiam, cambiam" e poi si torna all'ovile. Un'attitudine che ha creato una marea montante di persone rabbiose e sfiduciate, cui è difficile dire che bisogna continuare a credere nella politica, perché la vita non è come un gioco quando ti dice «non hai vinto, ritenta». Se si fosse voluto, in questi anni si sarebbe potuto fare molto, ma ha prevalso la logica dell'inciucio, del particolare sul bene comune, della scelta di non esporsi perché non si sa mai. E pure del conformismo dei critici da bar della situazione, pecoroni poi quando arrivano ordini dalle stanze del potere e che subiscono pure i diktat al momento del voto, turandosi il naso. Così e capitato di passare tempo e spendere energie con chi avrebbe potuto dimostrare un moto di orgoglio e dare il suo contributo a rovesciare i tavoli, ma poi per quieto vivere o per attitudine pusillanime è rimasto quieto, in certi casi persino scodinzolante. Ma penso che oggi dal fondo del pozzo sia bene guardare verso l'alto e non stare a mollo con il rischio di annegare. E bisogna trovare - come antidoto al meccanico tentennamento - il coraggio di esporsi. In francese alla "hésitation" si contrappone la "détermination". Vale un pensiero proposto da Marguerite Yourcenar ne "Les mémoires d'Hadrien", in cui ricorda il celebre Imperatore romano: «La plus haute forme de vertu est la ferme détermination d'être utile». Mai così vero come di questi tempi.