Seguo molto distrattamente i Mondiali di Calcio in Russia, facendo il tifo - in una logica di onore di firma - per la Svizzera e ciò per un'antica simpatia verso la Confederazione. La squadra è un esempio rimarchevole di come gli elvetici - che pure per ottenere la cittadinanza, se vengono da fuori, devono passare un esame da prendere sul serio - siano un misto di origini che fa lo stesso coesione, laddove i meccanismi d'integrazione sono efficaci. Poi qualche pasticcio esiste lo stesso, come avvenuto con i calciatori kosovari ed albanesi di schiatta, pur ormai svizzeri, che con la Serbia hanno mimato l'aquila, simbolo dell'unificazione dei popoli di origine albanese dopo i loro gol, con un gesto considerato offensivo dagli avversari serbi e punito dalla "Fifa".
Mi pare che la tiepidezza generata dall'assenza degli Azzurri sia in Italia un elemento abbastanza generale di questa competizione calcistica in corso, che dimostra alla fine che sono rari i cultori del calcio in sé, ma che molti danno alle competizioni quello spirito "nazionalistico" che scalda gli animi. Non è certo una novità che il calcio sianun rito collettivo, dalle evidenti origini tribali, che ricorda - come fece in un noto saggio di Desmond Morris - il tempo in cui certi giochi nacquero per simulare la guerra per evitare di farla per davvero. Meglio scontrarsi in questo modo, con vincitori e vinti seguendo regole prestabilite, che con spargimento di sangue a colpi di arma (il progresso tecnologico passa più dall'odio che dall'amore). L'antropologo inglese ne "La tribù del calcio" analizza in modo dettagliato i suoi simboli, i suoi riti, i giocatori (di cui, con evidente sberleffo, denuncia la generale pochezza intellettuale) e tutto l'entourage, comprese le "bande" di tifosi, che hanno qualche cosa di selvaggiamente atavico, risalente appunto agli albori dell'umanità. Malgrado tutti i limiti, i difetti e pure le violenze, giocare è comunque - come dicevo - un salutare passo avanti che purtroppo ha solo limitato i danni, perché c'è sempre chi preferisce la guerra vera a quella spostata sui campi di gioco. In un altro libro divertente ed istruttivo, "Un ethnologue à l'Assemblée", Marc Abélès - con un singolare filone di antropologia politica - descrisse l'Assemblea nazionale francese, annotando riti e comportamenti con lo stesso spirito d'osservazione che normalmente sarebbe stato dedicato da un antropologo alla descrizione di una tribù amazzonica. Non si tratta solo di osservare come si agisca per gruppi, con dei capi, ma anche annotare gli scontri verbali, il politichese come dialetto per iniziati, la disposizione nell'emiciclo che separa gli uni dagli altri, le tenzoni in aula che somigliano a duelli. Per altro alla Camera dei deputati italiana ho assistito anche a scontri fisici, in cui come segretario di Presidenza fui chiamato come uno degli arbitri con tanto di filmati alla moviola per vedere chi aggredisse chi, per fare scattare le necessarie sanzioni. In fondo questo parallelo fra Calcio e Politica non è una novità e questo scenario in Italia - lo dimostra la Nazionale sempre più declassata così come la Politica con maggioranze parlamentari sempre più strane per trovare la quadra - era stato tracciato anni fa dall'editorialista del "Corriere della Sera", Paolo Franchi: «Le domeniche calcistiche sono disertate come le domeniche elettorali. Il calendario dei campionati è cangiante e sottoposto agli interessi di chi comanda come quello dei congressi dei partiti. Gli spalti degli stadi, un tempo oggetti di studio perché riflettevano la realtà, in specie giovanile, e spesso ne anticipavano i cambiamenti, sono sempre più vuoti, proprio come le sezioni, o come si chiamano adesso. I tifosi, tranne una minoranza che resiste per motivi essenzialmente autobiografici, sono quasi scomparsi, o inglobati in un'assai più vasta e indifferenziata platea di spettatori televisivi, proprio come i militanti. Per quelli che, nonostante tutto, alla partita vogliono andarci lo stesso, si profilano stadi nuovi e molto più piccoli, dove potranno consumare (a pagamento) quanto e quando vogliono, fungendo in cambio, una volta alla settimana, da colorata coreografia di un evento televisivo: proprio come i sostenitori di questo o quel politico in un talk show. Ed a guadagnarsi la scena (ma anche loro come se partecipassero, nella parte dei brutti, sporchi e cattivi, a una rappresentazione per le televsioni) restano gruppi più o meno organizzati che rivendicano, spesso con la violenza, il loro diritto all'esistenza e alla parola, ivi compresa quella più sciagurata, in nome del rifiuto, spesso tinto di nero, del "calcio moderno"». Chissà che questo non valga anche per una riflessione su quale strategia migliore dovrà adottare la Valle d'Aosta, dove il termine "squadra" viene spesso evocato di questi tempi come conditio sine qua non per superare lo spezzettamento estremo da legge elettorale proporzionale. Personalmente credo che sia bene, almeno per partire, capire che nelle tattiche più recenti qualcosa non ha funzionato, quando ci si è messi a giocare con lo Stato con una logica da "catenaccio", quella espressione che nel calcio denuncia una tattica di gioco esasperatamente difensiva. Eppure l'Autonomia ha buscato un sacco di gol! Meglio dunque sarebbe immaginare di giocare più in attacco per vedere di raddrizzare il risultato.